Approfondimenti

Polizze assicurative e clausole “claims made”: le Sezioni Unite della Cassazione ne sanciscono la validità (forse in via definitiva)

Pubblicato l’ 11/12/2018 sul numero 37 de La Voce Degli Indipendenti

Premessa

Nei precedenti contributi pubblicati sui numeri 35/2018 e 36/2018 di questa rivista abbiamo illustrato le caratteristiche più importanti delle polizze assicurative c.d. D&O (“Directors & Officers Liability“) – stipulate a protezione del patrimonio personale dei membri degli organi di gestione e di controllo e delle funzioni apicali delle società di capitali – con l’obiettivo di agevolare la comprensione dei principali meccanismi di funzionamento di tali sofisticati contratti anche da parte dei non addetti ai lavori.

Uno dei temi sui quali ci siamo intrattenuti è il regime di operatività temporale delle polizze D&O, improntato alla disciplina di derivazione anglosassone cosiddetta “on claims made basis” (a richiesta fatta), in base alla quale ad assumere rilevanza è il momento della formulazione della richiesta risarcitoria da parte del terzo danneggiato nei confronti del soggetto assicurato, rispetto a quello (precedente) della commissione da parte dell’assicurato stesso di un illecito produttivo di danno.

Torniamo ora ad occuparci di questo argomento alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437), che ha fatto chiarezza – si auspica in maniera definitiva – sulla validità delle clausole claims made nell’ambito dell’ordinamento italiano, sulla base cioè di un tessuto normativo di matrice essenzialmente diversa rispetto al framework originario di tale tipologia di pattuizioni contrattuali.

Lo scenario di riferimento in base all’ordinamento italiano e il percorso giurisprudenziale in materia di validità delle clausole claims made

La Suprema Corte era già intervenuta altre volte sul tema dei contratti assicurativi della responsabilità civile operanti on claims made basis, senza tuttavia riuscire a dirimere una volta per tutte la questione della validità di tale modello, che è senza dubbio di grande interesse per gli operatori del mercato assicurativo[1]: basti pensare, infatti, che sostanzialmente tutte le polizze di responsabilità civile professionale intermediate sul mercato italiano sono emesse in regime claims made, e le polizze D&O non fanno certo eccezione sotto questo punto di vista.

Soltanto due anni fa, con la sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016, le Sezioni Unite della Cassazione avevano sancito che tale tipologia di clausola – ritenuta atipica rispetto ai modelli contrattuali previsti dal nostro ordinamento – fosse soggetta al controllo giudiziale della “meritevolezza” degli interessi perseguiti dai contraenti ai sensi di quanto disposto dall’art. 1322, comma 2, c.c., che stabilisce, appunto, che “le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico“.

Secondo tale approccio, la Suprema Corte aveva ritenuto astrattamente valida la clausola claims made “pura”, in base alla quale il contratto assicurativo copre i rischi relativi a tutte le richieste di risarcimento formulate contro l’assicurato durante il periodo di vigenza della polizza, a prescindere dalla data della verificazione dell’evento produttivo di danno (che potrebbe quindi risalire a molto tempo addietro rispetto all’entrata in vigore del contratto assicurativo).

Allo stesso tempo, la pronuncia del 2016 aveva valutato in modo sfavorevole lo schema tipico della clausola claims made “impura” o “mista”, che prevede invece che la garanzia assicurativa operi soltanto allorché sia l’evento produttivo di danno sia la richiesta risarcitoria siano intervenuti durante il periodo di validità della polizza.

In effetti, secondo l’orientamento appena richiamato della Suprema Corte, tale secondo tipo di pattuizione contrattuale andava ritenuto immeritevole di tutela – e quindi nullo – in quanto tendenzialmente caratterizzato dallo scopo o dall’effetto di attribuire ad una delle parti (l’assicuratore) un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza allo stesso tempo garantire un’adeguata contropartita per l’altra parte (l’assicurato). In altre parole, la clausola claims made “impura” sarebbe suscettibile di porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra, ovvero di costringere un contraente a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti (fatte queste premesse teoriche, la Suprema Corte lasciava comunque al giudice del merito la valutazione concreta, caso per caso, della meritevolezza della clausola in esame).

Successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite del 2016, nel giro di soli due anni la Cassazione è tornata a pronunciarsi diverse volte sul tema della clausola claims made, in certi casi ricalcando l’approccio improntato sul “test di meritevolezza”, in altri addirittura revocando in dubbio la stessa ammissibilità tout court di tale pattuizione contrattuale nel nostro ordinamento[2].

La decisione dello scorso settembre ha preso le mosse dall’ordinanza n. 1465 del 19 gennaio 2018, con la quale la Terza Sezione della Corte di Cassazione si era rivolta alle Sezioni Unite chiedendo di verificare la correttezza dei seguenti principi di diritto:

  • nell’assicurazione contro i danni non è consentito elevare al rango di “sinistri” fatti diversi da quelli previsti dall’art. 1882 c.c., ovvero, nell’assicurazione della responsabilità civile, dall’art. 1917, comma 1, c.c.”;
  • nell’assicurazione della responsabilità civile deve ritenersi sempre e comunque immeritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., la clausola la quale limiti l’indennizzo non già in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui l’assicurato ha causato il danno, ma in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto all’assicurato di essere risarcito, c.d. clausola claims made“.

La controversia sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite traeva origine da una domanda di garanzia svolta in giudizio da un’impresa costruttrice di una gru nei confronti del suo assicuratore, a seguito del danneggiamento di certa merce presente in un magazzino per effetto della caduta di un braccio meccanico della stessa gru.

Tra l’impresa assicurata e la compagnia erano stati stipulati due distinti contratti di assicurazione, entrambi in regime di claims made: nell’ambito del primo, valido per l’annualità 2002 in cui si era verificato l’evento produttivo del danno, era stata pattuita una franchigia pari a soli 4.500 Euro, mentre il secondo, applicabile alla successiva annualità 2003, prevedeva una franchigia di 150.000 Euro. La richiesta di risarcimento era stata presentata dal soggetto danneggiato nel 2003 e pertanto, in ossequio al meccanismo di funzionamento della clausola claims made, ad essa avrebbe dovuto trovare applicazione il secondo contratto, caratterizzato dalla franchigia più alta (e quindi, in caso di operatività della garanzia, da un esborso di ben maggiore entità a carico dell’impresa assicurata).

Da qui l’interesse dell’impresa costruttrice ad affermare l’invalidità della clausola claims made inserita nella polizza in questione, in favore dell’operatività della garanzia assicurativa secondo il modello tradizionale c.d. “loss occurrence” previsto dall’art. 1917, comma 1, c.c., che – privilegiando il momento in cui si è verificato l’evento produttivo di danno[3] – nel caso di specie avrebbe determinato l’applicazione del primo contratto.

A ben vedere, i fatti sottesi alla controversia di cui sopra sollevano una questione diversa e più ampia rispetto a quella della mera validità della clausola claims made. Quest’ultimo tema, infatti, non sarebbe stato di per sé sufficiente a motivare una nuova richiesta di intervento delle Sezioni Unite, che si erano pronunciate su di esso soltanto due anni prima nel senso dell’astratta meritevolezza della clausola claims made “pura”.

Per poter chiamare le Sezioni Unite a pronunciarsi ancora su tale questione, la Terza Sezione della Cassazione ha dunque adottato un approccio più articolato, domandandosi innanzitutto se la richiesta risarcitoria pervenuta all’assicurato possa essere convenzionalmente qualificata dalle parti come “sinistro” ai fini della polizza; per poi sollevare, a cascata, l’ulteriore interrogativo circa la possibilità che una condizione di polizza limitativa dell’indennizzo (nel caso di specie, una franchigia di importo elevato) possa trovare applicazione in base al contratto assicurativo in vigore al momento della medesima richiesta di risarcimento, ancorché peggiorativa in relazione alla posizione dell’assicurato, rispetto ad analoga clausola pattuita nel precedente contratto assicurativo vigente tra le parti al momento del verificarsi del fatto che ha causato il danno.

I principi sanciti dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2018

Nella sentenza n. 22437/2018 in commento, le Sezioni Unite della Cassazione non hanno risposto separatamente ai quesiti riportati nell’ordinanza della Terza Sezione che abbiamo citato nel paragrafo precedente. Il tema è invece stato affrontato secondo un approccio unitario, con l’affermazione dei principi che riportiamo brevemente qui di seguito.

(i) La clausola claims made è valida in base all’ordinamento italiano

La Suprema Corte ha affermato che l’assicurazione della responsabilità civile prestata nella forma claims made rientra nel più ampio genus dell’assicurazione contro i danni, sotto forma di deroga convenzionale allo schema tipico del modello loss occurence, consentita in base al disposto dell’art. 1932 c.c. (che non include l’art. 1917, comma 1, c.c. tra le norme in materia assicurativa definite come inderogabili[4]).

La Corte ha posto a principale fondamento di tale assunto la considerazione che il modello claims made è stato recentemente fatto oggetto di alcuni interventi del legislatore italiano, seppur non attraverso disposizioni di applicazione generale ma con riferimento a taluni ambiti settoriali specifici. Si pensi, ad esempio, all’art. 10 della Legge 8 marzo 2017, n. 24 in materia di responsabilità medica, meglio nota come “Gelli-Bianco”, che prevede che “la garanzia assicurativa (delle strutture sanitarie per la responsabilità civile verso i terzi e i prestatori d’opera, n.d.r.) deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei 10 anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati durante la vigenza temporale della polizza[5].

Nella medesima direzione, la Cassazione ha svolto una ricognizione dello stato dell’arte presso gli ordinamenti di alcuni Paesi caratterizzati da cultura giuridica analoga a quella italiana (Francia, Spagna e Belgio), dove le clausole claims made, pur se con qualche adattamento, trovano espresso riconoscimento a livello di diritto positivo.

Infine, la Corte ha affermato che la clausola claims made non pregiudica la funzione tipica del contratto assicurativo, in quanto, sebbene in base a tale modello la condotta materiale che ha causato il danno risarcibile possa verificarsi prima del periodo di polizza, resta ferma in capo all’assicuratore l’alea relativa alla richiesta risarcitoria.

(ii) La natura della clausola claims made non è vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c.

In linea con l’orientamento espresso dalla Cassazione già nel 2005[6] e ripreso, da ultimo, dalla pronuncia n. 9140/2016 delle Sezioni Unite citata in precedenza, la sentenza in commento ha inoltre ribadito che la clausola claims made non va ritenuta “vessatoria” in base alla disciplina generale di cui all’art. 1341 c.c. (“Condizioni generali di contratto“), il cui secondo comma dispone che “in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità (…), ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (…)”[7].

Sotto questo profilo, la Corte ha sottolineato che, lungi dal limitare la responsabilità dell’assicuratore, la clausola che prevede l’operatività della polizza in regime claims made persegue il diverso scopo di precisare e circoscrivere l’oggetto del contratto assicurativo.

(iii) Il test di “meritevolezza” della clausola claims made è superato da quello di adeguatezza dell’intero assetto contrattuale

Sul presupposto che – come si è visto – la clausola claims made non può più definirsi atipica rispetto ai modelli espressamente previsti dall’ordinamento vigente, le Sezioni Unite della Cassazione hanno infine affermato che, in presenza di una siffatta pattuizione, “rispetto al singolo contratto di assicurazione non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322 c.c.“, trovando invece applicazione il disposto del primo comma di tale disposizione del codice civile, secondo il quale “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme corporative“.

L’indagine del giudice di merito andrà condotta, di conseguenza, sulla liceità dell’accordo e sull’adeguatezza dell’intero assetto contrattuale rispetto agli interessi specificamente perseguiti dalle parti contraenti. In tale ottica, il controllo deve riguardare tutte le diverse fasi del rapporto tra le parti, da quella precontrattuale della formazione del consenso, passando per quella della conclusione del contratto sino al momento successivo dell’attuazione del rapporto.

Proprio con riferimento alle diverse fasi della vicenda contrattuale, nel descrivere l’oggetto dell’indagine di adeguatezza del contratto assicurativo la Corte ha posto l’accento sulla necessità di verificare, in particolare:

  1. il rispetto da parte dell’assicuratore degli obblighi di buona fede, di protezione e di informazione che caratterizzano la fase precontrattuale. In particolare, gli obblighi informativi sul contenuto del contratto devono essere assolti dall’impresa assicurativa o dai suoi intermediari in modo trasparente e mirato alla tutela effettiva dell’altro contraente, nell’ottica di far conseguire all’assicurato una copertura assicurativa il più possibile aderente alle sue esigenze;
  2. l’adeguatezza del contratto a realizzare la “causa concreta” del contratto, ossia la sintesi degli interessi delle parti che il negozio è diretto a realizzare nel caso specifico;
  3. l’equilibrio economico delle prestazioni, sul presupposto che nel contratto di assicurazione contro i danni la corrispettività si fonda su una relazione oggettiva e coerente tra il rischio assicurato e il premio versato all’assicuratore.

Conclusioni

Come si è visto, con la pronuncia appena commentata la Cassazione ha definitivamente sancito la validità del modello claims made, chiarendo che le parti di un contratto assicurativo possono legittimamente elevare al rango di “sinistro” ai fini di polizza, in luogo della condotta dell’assicurato produttiva del danno, la successiva richiesta risarcitoria proveniente dal danneggiato, senza che tale deroga allo schema previsto dall’art. 1917, comma 1, c.c. pregiudichi la funzione assicurativa del contratto.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha affermato la tipicità del contratto assicurativo contenente una clausola claims made, con la rilevante conseguenza che tale pattuizione non potrà più formare oggetto di un test di meritevolezza secondo quanto disposto dall’art. 1322, comma 2 c.c., ma dovrà essere vagliata dal giudice di merito alla luce dell’intera vicenda contrattuale.

In tale ambito finisce per sfumare la rigida distinzione tra clausole claims made “pure” e “impure” – che la stessa Suprema Corte a Sezioni Unite aveva indicato quale discrimine ai fini del giudizio di meritevolezza del regime di operatività temporale “a richiesta fatta” della polizza assicurativa della responsabilità civile – pur continuando essa a costituire in astratto un parametro importante nell’ambito della valutazione complessiva di adeguatezza dell’assetto contrattuale complessivamente pattuito tra le parti.

Per quanto riguarda, in particolare, le polizze D&O, sembra ragionevole ipotizzare che nella maggioranza dei casi, in presenza del tipico regime di operatività temporale della garanzia secondo lo schema claims made, la valutazione giudiziale di adeguatezza della disciplina contrattuale degli interessi delle parti nel senso raccomandato dalle Sezioni Unite del 2018 ben difficilmente potrebbe avere esito negativo. Su tale valutazione, infatti, ci pare debba incidere in maniera determinante il fatto che la garanzia assicurativa offerta dalla polizza D&O ha solitamente un perimetro di applicazione molto esteso (configurandosi essa molto spesso come una sorta di polizza “All Risks” dei soggetti apicali della società contraente, pur nei limiti e alle condizioni di volta in volta applicabili), con la frequentissima previsione di una illimitata retroattività della copertura.

Diverso potrebbe essere il discorso con riferimento alle polizze assicurative stipulate dai professionisti (a seconda dei casi, individualmente oppure attraverso le strutture organizzative di riferimento) a copertura delle responsabilità per danni patrimoniali arrecati a terzi a seguito di errori od omissioni nell’erogazione dei servizi prestati nell’ambito della propria attività caratteristica (c.d. polizze Professional Indemnity o “PI”).

In questo secondo caso, infatti, il mercato di riferimento presenta molta meno omogeneità rispetto all’offerta tipica del settore D&O, per effetto di una serie di fattori quali la frammentazione della domanda, la notevole varietà delle coperture offerte, l’elevata concorrenza tra gli operatori, senza dimenticare una maggiore tendenza degli assicurati ad affidarsi a soluzioni non intermediate da broker assicurativi.

La maggiore eterogeneità delle soluzioni contrattuali comunemente negoziate in ambito PI rispetto al settore D&O si riflette anche sul fronte della operatività temporale delle coperture del primo tipo, il cui regime di retroattività è spesso determinato in base a valutazioni che attengono al numero di incarichi assunti dall’assicurato, alle precedenti coperture assicurative, al premio pagato all’assicuratore e così via.

Ne consegue che il test di adeguatezza dell’assetto contrattuale rispetto agli interessi perseguiti dalle parti, da condursi in base all’art. 1322, comma 1, c.c., potrebbe teoricamente assumere maggiore pregnanza con riferimento alle polizze assicurative PI rispetto a quanto non avvenga in relazione alle coperture D&O.

Per quanto riguarda gli scenari ipotizzabili sotto il profilo strettamente giudiziale, ricordiamo che secondo l’impostazione della giurisprudenza di legittimità precedente alla sentenza in commento l’esito negativo del test di “meritevolezza” di una clausola claims made avrebbe comportato la sua sostituzione di diritto con una disposizione in linea con il regime di operatività temporale del loss occurrence previsto dall’art. 1917, comma 1, c.c.

Per contro, con l’introduzione del nuovo test di adeguatezza, il contraente che si assuma danneggiato da un arbitrario squilibrio del sinallagma contrattuale potrà invocare l’applicazione del più pertinente tra i vari rimedi previsti in via generale dall’ordinamento, quali ad esempio il risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale, la dichiarazione di nullità parziale del contratto per inadeguatezza rispetto allo scopo pratico perseguito dai contraenti, con conseguente conformazione della clausola secondo le congruenti indicazioni di legge (ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c.), e così via.

Se talune delle modalità con cui il “test di adeguatezza” si svolgerà in concreto restano poco chiare (e da questo punto di vista è auspicabile che il perimetro del potere del giudice di correggere eventuali squilibri sinallagmatici tra le parti sia delineato quanto prima dalla giurisprudenza di merito), sembra lecito attendersi, da un punto di vista tecnico-processuale, che buona parte dei rimedi che l’assicurato è legittimato ad attivare per tutelarsi in relazione a tali profili saranno fatti valere non tanto all’interno del procedimento in cui l’assicurato stesso è stato originariamente convenuto dal danneggiato ai fini dell’accertamento della sua responsabilità civile, bensì mediante un successivo giudizio autonomo da instaurarsi nei confronti dell’assicuratore o degli intermediari che hanno avuto un ruolo nel piazzamento del contratto assicurativo.


[1] In considerazione della rilevanza del tema, la sentenza in commento è stata recentemente analizzata anche in una nota del Servizio Protezione, Vita e Welfare dell’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici (ANIA) emessa lo scorso 14 dicembre 2018 (cfr. ANIA, Commenti alla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 22437 in materia di clausola Claims Made).

[2] Per una carrellata delle prese di posizione della giurisprudenza di legittimità in materia di clausole claims made nel biennio 2016-2018, cfr. CARNEVALI, La clausola claims made e le Sezioni Unite: bis in idem, in I Contratti, 6/2018, p. 648.

[3] Per una breve disamina delle principali differenze di funzionamento del modello c.d. loss occurrence rispetto a quello claims made, rinviamo al precedente contributo pubblicato sul n. 36/2018 di questa rivista.

[4] Art. 1932 c.c.: “Le disposizioni degli articoli 1887, 1892, 1893, 1894, 1897, 1898, 1899, secondo comma, 1901, 1903, secondo comma, 1914, secondo comma, 1915, secondo comma, 1917, terzo e quarto comma e 1926 non possono essere derogate se non in senso più favorevole all’assicurato. Le clausole che derogano in senso meno favorevole all’assicurato sono sostituite di diritto dalle corrispondenti disposizioni di legge“.

[5] Altre conferme del recepimento del modello claims made nell’ordinamento italiano si rinvengono nel D.L. 138/2011, come modificato dalla legge 124/2017 (c.d. “legge sulla concorrenza”), e precisamente in materia di ultrattività delle coperture r.c. professionali, e nel D.M. 22 settembre 2016, attuativo dell’art. 12 della legge n. 247/2012 (c.d. “legge professionale forense”).

[6] Cfr. Cass., Sez. III, 15 marzo 2005, n. 5624.

[7] Nella giurisprudenza di legittimità si è definita vessatoria la clausola contrattuale che “restringe l’ambito di responsabilità del soggetto che l’ha predisposta apportando limitazioni al dettato normativo oppure ai precetti generali di contratto” (Cass., Sez. III, 10 novembre 2015, n. 22891), determinando pertanto una sproporzione sostanziale tra prestazione e controprestazione.

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