Approfondimenti

Disciplina della copertura assicurativa delle spese legali nelle polizze D&O: inquadramento e problematiche

Pubblicato il 26/3/2019 sul numero 38 de La Voce Degli Indipendenti

Premessa

Come illustrato nei precedenti articoli dedicati all’analisi delle polizze D&O (“Directors & Officers Liability“: cfr. i nn. 35/2018, 36/2018 e 37/2019 di questa rivista), tali contratti assicurativi rappresentano un indispensabile strumento di protezione del patrimonio dei membri degli organi di gestione o di controllo di una società di capitali.

La funzione della polizza D&O è infatti quella di elidere (o quanto meno minimizzare) gli effetti patrimonialmente negativi derivanti dall’insorgenza di un debito di responsabilità, trasferendo il relativo rischio dall’assicurato all’assicuratore.

Come per qualsiasi assicurazione di responsabilità civile, anche per le polizze D&O vale dunque quanto disposto dall’art. 1917 c.c. che, al primo comma, stabilisce che “Nell’assicurazione della responsabilità civile l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. Sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi (…)”.

Tale norma prevede inoltre, al terzo comma, che “Le spese sostenute per resistere all’azione del danneggiato contro l’assicurato sono a carico dell’assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata. Tuttavia, nel caso che sia dovuta al danneggiato una somma superiore al capitale assicurato, le spese giudiziali si ripartiscono tra assicuratore e assicurato in proporzione del rispettivo interesse“.

La protezione offerta dalle polizze D&O è quindi duplice: da un lato l’assicuratore si assume (nei limiti del massimale pattuito) l’eventuale debito di responsabilità dell’assicurato, dall’altro lato lo stesso assicuratore è obbligato per legge – e quindi indipendentemente dalle pattuizioni contrattuali – ad indennizzare l’assicurato rispetto alle spese che quest’ultimo ha sostenuto per resistere all’azione promossa dal danneggiato nei suoi confronti.

In aggiunta, come si vedrà meglio nel paragrafo che segue, le clausole di polizza possono prevedere l’indennizzo di ulteriori tipologie di costi.

In questo contributo approfondiremo il tema dell’indennizzo delle spese legali che, specialmente in caso di richieste risarcitorie di notevole entità, riveste un’importanza tutt’altro che secondaria, sia per l’assicurato che per l’assicuratore. In effetti, a prescindere dal fatto che la pretesa risarcitoria venga accolta o meno, l’assicurato dovrà comunque remunerare il proprio difensore per l’attività di assistenza prestata in suo favore.

Le diverse tipologie di spese legali. Che cosa si intende per “spese di resistenza”

Occorre preliminarmente delimitare il campo di indagine e chiarire quali sono le tipologie di spese legali che posso essere oggetto di copertura assicurativa in base alla polizza D&O, con particolare attenzione alle “spese di resistenza” che, come si è detto, sono le uniche ad essere normativamente disciplinate dall’art. 1917 c.c.

In linea generale, il soggetto assicurato sulla base di una polizza D&O (così come di una qualsiasi altra polizza di responsabilità civile), che sia convenuto in un giudizio volto ad accertarne la responsabilità in ordine alla commissione di un determinato illecito e ad ottenerne quindi la condanna al risarcimento dei danni, si trova esposto al rischio di dover sostenere tre diversi tipi di costi processuali:

  1. le spese di soccombenza, cioè quelle che, in caso di condanna, l’assicurato potrebbe essere tenuto a rifondere per effetto della sentenza al soggetto danneggiato e vittorioso che le abbia sostenute;
  2. le spese di resistenza, cioè quelle sostenute dall’assicurato per remunerare il proprio difensore ed eventualmente i propri consulenti, resistendo alla pretesa del danneggiato;
  3. le spese di chiamata in causa, vale a dire le spese sostenute per coinvolgere in giudizio il proprio assicuratore al fine di ottenere la manleva dalle pretese risarcitorie del terzo danneggiato.

Le tre tipologie di spese processuali appena citate sono ontologicamente diverse ed ogni categoria è soggetta ad una diversa regolamentazione.

Le spese di soccombenza sono un effetto, al pari del danno, della commissione del fatto illecito e seguono dunque la regola del primo comma dell’art. 1917 c.c. sopra riportato. Pertanto, le spese di soccombenza al pagamento delle quali venga condannato l’assicurato graveranno sull’assicuratore nei limiti del massimale di polizza e concorreranno all’erosione dello stesso.

Delle spese di resistenza, invece, l’assicuratore dovrà farsi carico in aggiunta al massimale di polizza, nei limiti stabiliti dal terzo comma dell’art. 1917 c.c., la cui disciplina sarà esaminata tra breve in maggiore dettaglio.

Infine, quanto alle spese sostenute dall’assicurato per svolgere la chiamata in manleva del proprio assicuratore, la giurisprudenza ritiene che queste non appartengano al genus delle spese di resistenza e seguano l’ordinaria regolamentazione delle spese di lite sulla base del principio processuale della soccombenza (a seconda dei casi, il giudice potrà dunque addossare tali spese alla parte soccombente in base all’art. 91 c.p.c. oppure compensare le stesse, ove ricorrano i motivi di cui all’art. 92 c.p.c.)[1].

Le suddette spese di chiamata in causa non sono dunque soggette – come nel caso sub a) – alla disciplina di cui all’art. 1917 c.c. e, non essendo equiparabili al danno da atto illecito, non concorrono all’erosione del massimale.

A margine di quanto si è detto, va infine rilevato che (come si vedrà più avanti in maggiore dettaglio) generalmente la polizza D&O offre all’assicurato una garanzia ulteriore in materia di spese, consistente nella copertura dei costi sostenuti nell’ambito di procedimenti diversi dall’azione civile di responsabilità da atto illecito. Peraltro, pur avendo anche in questo caso ad oggetto costi legali, tale copertura risponde a logiche indennitarie di tipo diverso.

L’accessorietà delle spese di resistenza rispetto all’obbligazione indennitaria principale

Prima di analizzare i limiti posti dall’art. 1917 c.c. all’obbligazione dell’assicuratore di indennizzare le spese legali di resistenza, occorre sottolineare che essa costituisce, come riconosciuto anche recentemente dalla Corte di Cassazione[2], un accessorio dell’obbligazione indennitaria principale, che ne è il presupposto.

Ciò ha un’importante conseguenza. Infatti, ove non dovesse sussistere l’obbligazione principale a causa dell’inoperatività della copertura assicurativa, non sarebbe nemmeno configurabile in capo all’assicuratore l’obbligazione accessoria di indennizzo delle spese di resistenza.

Va tuttavia precisato che, qualora l’obbligazione principale non dovesse sussistere a causa del rigetto della domanda proposta dal terzo danneggiato verso l’assicurato, l’assicuratore sarebbe comunque obbligato a rifondere all’assicurato le spese di resistenza[3]. Il perché lo vedremo tra poco.

La “regola del quarto” e la “regola proporzionale” dettate dall’art. 1917, comma 3, c.c.

La ratio della regola che pone a carico dell’assicuratore le spese legali sostenute per resistere alla domanda del terzo danneggiato risiede nel fatto che la difesa dell’assicurato rispetto alla richiesta risarcitoria è sostanzialmente svolta nell’interesse dell’assicuratore, dal momento che, in base al contratto di assicurazione, se il sinistro è in copertura quest’ultimo sarà tenuto a tenere l’assicurato manlevato e indenne e dunque a farsi carico del rischio di causa. In altre parole, come si usa dire in gergo assicurativo, l’assicuratore “difende il proprio massimale”.

Prendendo le mosse da tale principio, la giurisprudenza ha anche precisato che l’assicuratore che abbia pagato l’intero massimale al danneggiato prima che questi inizi la propria azione nei confronti dell’assicurato non sarà tenuto a rimborsare a quest’ultimo le spese di resistenza, in quanto in tale caso l’assicuratore avrà già interamente assolto la propria obbligazione di manleva (e quindi non nutrirà più alcun interesse verso la sorte del contenzioso) e la difesa sarà svolta ad esclusivo beneficio dell’assicurato[4].

In ogni caso, l’obbligazione dell’assicuratore di tenere indenne l’assicurato rispetto alle spese di resistenza non è illimitata, poiché – come accennato in precedenza – il comma 3 dell’art. 1917 c.c. stabilisce due regole applicative di estrema importanza pratica, allo scopo di limitare l’esposizione del primo.

L’assicuratore è innanzitutto tenuto a indennizzare le spese di resistenza nei limiti del quarto del valore del massimale. Nel caso in cui, ad esempio, una polizza D&O preveda un massimale (per sinistro e in aggregato) di Euro 10 milioni, l’assicuratore sarà tenuto ad indennizzare le spese di resistenza sostenute da uno o più soggetti assicurati fino ad un importo massimo di Euro 2,5 milioni. Oltre tale soglia le spese di resistenza graveranno solo ed esclusivamente sugli assicurati, salvo il caso, davvero improbabile, che la polizza preveda condizioni più favorevoli per gli assicurati rispetto alla disciplina codicistica appena riferita.

La stessa “regola del quarto”, d’altra parte, risulterebbe eccessivamente penalizzante per l’assicuratore allorché sia dovuta al danneggiato una somma risarcitoria superiore al massimale. In questi casi, l’art. 1917 c.c. introduce un ulteriore meccanismo volto a temperarne gli effetti: la cosiddetta “regola proporzionale”.

In base a quest’ultima, nel caso in cui sia dovuta al danneggiato una somma superiore al massimale, le spese di resistenza devono essere ripartite tra assicuratore e assicurato in proporzione del rispettivo interesse.

Tramite la ripartizione in esame viene dunque ribadito il riconoscimento del valore degli interessi protetti con la difesa in giudizio, dal momento che l’assicurato è tenuto a risarcire al terzo la parte di danno eventualmente eccedente il massimale di polizza (il quale soltanto, come si è detto, è difeso dall’assicuratore).

Un altro esempio chiarirà meglio il concetto. Ipotizziamo ancora una volta che una polizza D&O preveda un massimale di Euro 10 milioni. Ove la somma dovuta dall’assicurato al danneggiato[5], per effetto di una transazione o di una sentenza, sia inferiore al massimale (in ipotesi, Euro 7 milioni), si applicherà solo la regola del quarto e l’assicuratore, come detto, sarà tenuto ad indennizzare le spese di resistenza dei soggetti assicurati fino ad un massimo di Euro 2,5 milioni. Se invece la somma dovuta dall’assicurato al danneggiato fosse superiore al massimale (poniamo Euro 30 milioni), troverà applicazione la regola proporzionale al fine di mitigare l’esborso dell’assicuratore per le spese di resistenza. In questo caso infatti, è evidente che le spese di resistenza non sono state sostenute nell’esclusivo vantaggio dell’assicuratore, ma anche dell’assicurato, il quale si trova a dover pagare di tasca propria la parte di indennizzo che eccede il massimale. Ebbene, in questo caso le spese di resistenza andranno divise nella stessa proporzione di 2 a 1 che esiste tra la somma dovuta dal danneggiato e il massimale di polizza (Euro 20 milioni vs. Euro 10 milioni): in altre parole, per ogni Euro 1.000 di spese rimborsate dall’assicuratore, l’assicurato dovrà farsene carico per Euro 2.000.

Concludiamo la disamina delle regole dettate dall’art. 1917 c.c. in tema di ripartizione delle spese di resistenza segnalando che, in base all’articolo 1932 c.c., i commi 3 e 4 dell’articolo 1917 c.c. possono essere derogati solo in senso più favorevole all’assicurato. Pertanto, ove una polizza dovesse contenere una disciplina di maggior sfavore per l’assicurato, le relative pattuizioni sarebbero nulle e verrebbero sostituite di diritto dalle menzionate disposizioni del codice civile[6].

Prescrizione del diritto all’indennizzo delle spese legali

Il tema della prescrizione con riferimento all’indennizzo delle spese legali è sicuramente delicato. Accade infatti spesso, nella pratica, che l’assicurato denunci inizialmente il sinistro all’assicuratore e successivamente, solo a distanza di molto tempo, informi quest’ultimo dell’esito del contenzioso e dei pagamenti via via disposti in favore dei propri legali per le spese di difesa.

Un comportamento poco attento dell’assicurato può determinare l’insorgere dei presupposti per un diniego da parte dell’assicuratore della copertura dei costi di difesa, a causa del maturare dei termini di prescrizione.

Com’è noto, la prescrizione è lo strumento con cui l’ordinamento giuridico determina l’estinzione di un diritto, quando il suo titolare omette di esercitarlo entro il termine previsto dalla legge (art. 2934 c.c.). Essa svolge una precisa funzione nell’ambito dell’ordinamento giuridico, che riconosce l’opportunità di tutelare l’interesse del soggetto passivo a non rimanere obbligato per un periodo indefinito di tempo. La ratio della prescrizione, peraltro, non è tanto quella di liberare i debitori dalle loro obbligazioni, ma è piuttosto riconducibile all’esigenza di garantire certezza ai rapporti giuridici.

I diritti derivanti dal contratto di assicurazione (e quindi anche il diritto all’indennizzo delle spese di resistenza) si prescrivono nel termine di due anni, come previsto dall’art. 2952, comma 2, c.c. Il termine di prescrizione è dunque piuttosto breve, inferiore sia a quello ordinario di dieci anni stabilito per la generalità dei rapporti dall’art. 2946 c.c., sia a quello di cinque anni che si applica al risarcimento del danno da fatto illecito ai sensi dell’art. 2947 c.c.

Se l’applicabilità del termine di prescrizione biennale alle spese di resistenza non è mai stata oggetto di dibattito, più incerta è sempre risultata la determinazione del dies a quo, cioè del momento a partire dal quale l’assicurato può iniziare a far valere la propria pretesa nei confronti dell’assicuratore, che coincide con il giorno da cui inizia a decorrere il termine di due anni.

Secondo quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione – posto che la garanzia relativa all’indennizzo delle spese di resistenza ha ad oggetto il rimborso di una perdita pecuniaria e costituisce perciò un’assicurazione contro le perdite pecuniarie (e non un’assicurazione di responsabilità) – il diritto alla rifusione delle spese di resistenza può essere fatto valere dall’assicurato nel momento stesso in cui sorge il debito del pagamento dell’onorario al suo legale e, quindi, “al più tardi, al momento di ultimazione delle prestazioni professionali” da parte di quest’ultimo: in altre parole, al termine dell’iter processuale del giudizio di risarcimento[7].

Definito così il principio generale, in concreto la situazione è spesso resa più complicata dal fatto che sempre più raramente gli avvocati attendono la fine di un procedimento per esigere dal cliente il pagamento dei propri onorari. In questi casi, qualora l’assicurato corrisponda uno o più acconti o abbia pattuito con il proprio difensore uno schema di fatturazione che preveda precise scadenze temporali, riteniamo che la prescrizione del diritto all’indennizzo inizi a decorrere, con riferimento a ciascun pagamento, non appena questo sia stato effettuato. Da tale momento, infatti, potrà essere fatto valere dall’assicurato, nei confronti del proprio assicuratore, il diritto al rimborso (seppur parziale) delle spese di resistenza sostenute.

Clausole di preventiva autorizzazione alla nomina del legale e pattuizioni limitative della scelta degli avvocati

Non è infrequente rinvenire nelle polizze D&O clausole che stabiliscono regole – più o meno rigide – riguardo alla scelta e alla nomina dei consulenti legali dai quali l’assicurato intenda farsi assistere ai fini della propria difesa contro la pretesa del danneggiato.

Si tratta sostanzialmente di due diversi tipi di pattuizioni contrattuali. Una prima tipologia di clausola permette al cliente di nominare un legale solo previa autorizzazione dell’assicuratore, mentre un secondo tipo introduce limiti alla scelta del legale.

Entrambe sono ovviamente clausole delicate, alle quali bisogna porre la massima attenzione e sulla cui validità la giurisprudenza è intervenuta raramente.

Le clausole che richiedono la preventiva autorizzazione dell’assicuratore alla nomina del legale prevedono solitamente la seguente (o equivalente) formulazione: “(…) non potranno essere sostenute spese di difesa e non potrà avvenire alcuna liquidazione di sinistri senza il consenso scritto degli assicuratori, che non potrà essere irragionevolmente negato (…)”.

La validità di siffatte pattuizioni è stata riconosciuta dalla Suprema Corte che, in una recente pronuncia, ha evidenziato che il senso della pattuizione è chiaro e, non ponendosi alcun problema di interpretazione della stessa, “si tratta solo di accertare se vi fu la richiesta autorizzazione o accettazione[8]. L’inadempimento dell’assicurato all’obbligazione di richiedere il consenso alla nomina del suo difensore può ovviamente comportare la perdita del diritto all’indennizzo delle spese sostenute per la remunerazione del legale.

Più controversa è, invece, la validità delle disposizioni contrattuali che, in maniera più o meno stringente, pongono limiti alla scelta del professionista da incaricare per la difesa dell’assicurato.

Il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi sulla validità di una clausola che imponeva all’assicurato la scelta del legali all’interno di un apposito elenco previamente concordato tra la compagnia assicuratrice e la contraente (un’associazione professionale), ha evidenziato che l’art. 24 della Costituzione italiana – ai cui sensi “(…) La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” – prevede sì che il diritto di difesa debba essere considerato in ogni caso inderogabile, ma che “nulla preclude una contrattualizzazione dello stesso nel senso (non di escludere tout court l’aspetto fiduciario che necessariamente connota un simile mandato, bensì) di regolare l’esercizio di tale diritto“.

Sulla base di tale assunto, il Tribunale è giunto alla conclusione che la clausola che impone all’assicurato la selezione del difensore sulla base di un elenco “appare meritevole di tutela, perché comunque, nel momento in cui l’assicurazione si espone al pagamento delle spese di resistenza dell’assicurato, la stessa ha evidente ragione di porsi il problema che la difesa tecnica dell’assicurato sia svolta da un professionista scelto all’interno di un consistente insieme che goda anche della fiducia della prima, che sarà poi tenuta a pagarlo[9].

Clausole più limitative della facoltà di scelta del legale da parte dell’assicurato potrebbero essere nulle per contrasto con lo stesso art. 24 Cost. e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che, seppur in tema di polizze di tutela legale, ha sempre espresso opinione sfavorevole alle limitazioni della libertà di scelta del difensore, sulla base di un’interpretazione non restrittiva della Direttiva 87/344/CEE del 22 giugno 1987 sull’assicurazione della tutela giudiziaria.

La copertura delle spese legali sostenute dall’assicurato nei giudizi penali e nei procedimenti amministrativi

Come si è accennato in precedenza, un aspetto di significativa rilevanza che caratterizza il regime dell’indennizzo delle spese legali in base alla polizza D&O è rappresentato dal fatto che tale tipologia di contratto assicurativo solitamente prevede l’ulteriore obbligo dell’assicuratore (in assenza di ragioni di esclusione della copertura) di anticipare o rimborsare i costi di difesa sostenuti dall’assicurato anche nell’ambito di procedimenti di natura diversa rispetto alla causa civile di responsabilità.

Ci si riferisce, in particolare, ai procedimenti penali e a quelli sanzionatori amministrativi, che – con la sola rilevante eccezione della eventuale costituzione di parte civile all’interno del processo penale, di cui si dirà più avanti – hanno in comune la caratteristica di non essere preordinati all’accertamento di un profilo di responsabilità per danni a carico dell’assicurato e del conseguente obbligo risarcitorio nei confronti di un terzo danneggiato.

Al contrario, in entrambe le ipotesi il procedimento instaurato nei confronti dell’assicurato persegue il diverso scopo di accertare l’esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l’applicazione a suo carico di sanzioni, a seconda dei casi, penali o amministrative.

In considerazione di tale aspetto, ci sembra di poter sostenere che nei casi in questione – in cui l’indennizzo non viene prestato dall’assicuratore rispetto alle spese di resistenza, ma è previsto con riferimento a spese sostenute in procedimenti dove l’assicurato non “resiste” ad alcuna pretesa del terzo danneggiato – la polizza D&O offra una garanzia di diversa natura rispetto alla consueta copertura delle spese legali prestata dalle polizze di assicurazione della responsabilità civile. Tale garanzia, a ben vedere, appare riconducibile alla tipologia di assicurazione c.d. di “tutela legale”, la quale prevede che l’indennizzo venga prestato rispetto a qualsiasi costo sostenuto dall’assicurato per effetto del suo coinvolgimento in contenziosi di natura legale.

Allo stesso tempo, sia i procedimenti innanzi al giudice penale sia quelli sanzionatori amministrativi sono generalmente ricompresi nell’ambito della garanzia assicurativa offerta dalla polizza D&O (limitatamente alla copertura dei costi di difesa) nella misura in cui essi siano comunque suscettibili di dare luogo (anche a seguito della scadenza della polizza) a successive richieste di risarcimento in sede civile astrattamente coperte dalla stessa polizza.

(i) Le spese di difesa nel procedimento penale

Come si è accennato, all’interno del procedimento penale coloro che ritengano di avere subito danni per effetto della commissione del reato oggetto di accertamento giudiziale (o dei loro successori universali) possono costituirsi parti civili contro l’imputato.

La costituzione di parte civile è a tutti gli effetti un’azione civile di risarcimento esercitata all’interno del procedimento penale, nei confronti della quale l’imputato è chiamato a difendersi, sostenendo oneri economici riconducibili alla categoria delle “spese di resistenza” di cui si diceva in precedenza.

Al di fuori del caso appena menzionato, per contro, in ambito penale l’assicurato non “resiste” ad alcuna pretesa di un terzo danneggiato. Tuttavia, la polizza D&O può prevedere che le spese legali sostenute dall’assicurato per difendersi dalle imputazioni a suo carico possano essere coperte da garanzia assicurativa secondo il diverso, autonomo schema della assicurazione di tutela legale di cui si è detto poc’anzi.

Ciò precisato, i procedimenti penali – specialmente se di complessità superiore alla media – possono generare costi di difesa per importi molto significativi. Per questo motivo, è importante che in sede di assunzione del rischio le parti prestino la massima attenzione alla formulazione delle clausole di polizza che disciplinano questo tipo di garanzia.

(ii) Le spese di difesa nei procedimenti sanzionatori amministrativi e in sede di impugnazione delle sanzioni erogate dalle autorità di vigilanza indipendenti

Discorso analogo può essere fatto in relazione ai procedimenti finalizzati all’accertamento dei presupposti per l’applicazione a carico dell’assicurato di sanzioni di natura amministrativa.

Nel caso delle polizze D&O, si tratta tipicamente delle misure sanzionatorie applicate all’esito di verifiche ispettive condotte dalle autorità di regolamentazione e vigilanza competenti con riferimento al settore di attività in cui opera la società contraente (a seconda dei casi, l’IVASS, la Consob o la Banca d’Italia).

E’ opportuno precisare, a tale proposito, che la legge italiana vieta in ogni caso la stipulazione di “(…) assicurazioni che hanno per oggetto il trasferimento del rischio di pagamento delle sanzioni amministrative” e che “in caso di violazione del divieto il contratto è nullo”, con il conseguente obbligo di restituzione dei premi pagati dall’assicurato[10].

Anche in questo caso, tuttavia, ad essere solitamente oggetto di copertura da parte della polizza D&O sono esclusivamente le spese legali sostenute dai soggetti apicali della società contraente per difendersi dagli addebiti ipotizzati a loro carico dall’autorità procedente, oppure per impugnare le eventuali sanzioni già applicate.

Si precisa, a quest’ultimo proposito, che, secondo quanto chiarito negli anni scorsi dalla Corte Costituzionale, la giurisdizione sulle opposizioni a sanzioni amministrative irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia (mediante ricorso nei termini di legge a seguito della loro applicazione) è devoluta al giudice ordinario[11].

La determinazione dei compensi degli avvocati

 

(i) Dal sistema delle tariffe a quello dei parametri

Una volta chiarito quali sono gli scenari in presenza dei quali solitamente la polizza D&O prevede il rimborso delle spese legali dell’assicurato rientranti in copertura, è utile esplorare brevemente le norme che disciplinano la determinazione dei compensi dei consulenti legali, alle cui prestazioni lo stesso assicurato ricorre per garantirsi un’adeguata difesa in giudizio contro la domanda risarcitoria del terzo danneggiato.

Il sistema per lungo tempo vigente in Italia, introdotto per la professione legale in epoca fascista[12], era basato sulle c.d. “tariffe” applicabili con riferimento a singole frazioni di attività giudiziali e stragiudiziali, le quali avevano carattere vincolante per il giudice in sede di quantificazione dei compensi dei professionisti.

Tale sistema, invero piuttosto rigido, è stato abrogato nel 2012 dal c.d. “Decreto Legge Liberalizzazioni” (D.L. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni nella L. 24 marzo 2012 n. 27), che ha demandato ad un successivo Decreto Ministeriale la determinazione di nuovi “parametri” per la liquidazione giudiziale dei compensi.

Il successivo D.M. 20 luglio 2012 n. 140 ha quindi disciplinato i suddetti parametri, i quali hanno effettivamente condotto ad una drastica semplificazione del sistema, in concomitanza con misure quali la soppressione della distinzione fra diritti ed onorari, la sostituzione del sistema a “voci” con quello strutturato su “fasi” processuali (i.e., fase di studio, fase introduttiva del giudizio, fase istruttoria e fase decisionale) e la riduzione del numero degli scaglioni di valore.

Inoltre, il suddetto Decreto Ministeriale ha stabilito che nei rapporti fra cliente e professionista i parametri hanno natura meramente sussidiaria, trovando applicazione in assenza di un accordo tra le parti in ordine al compenso.

Di lì a poco, la nuova Legge Professionale Forense (L. 31 dicembre 2012 n. 247) è intervenuta ancora in materia di compensi, chiarendo che la pattuizione fra cliente ed avvocato è libera e ribadendo la natura sussidiaria dei parametri rispetto all’accordo tra le parti.

Un ulteriore rilevante intervento in materia di parametri forensi per i compensi degli avvocati è quello successivamente posto in essere dal Decreto Ministeriale del 10 marzo 2014, n. 55[13], attualmente in vigore.

Anche i nuovi parametri disciplinati da tale normativa trovano applicazione, come in precedenza, in mancanza di un contratto tra cliente e avvocato con il quale sia stata pattuita per iscritto la remunerazione del professionista, o quando il giudice debba provvedere alla liquidazione delle spese di lite (art. 91 c.p.c.).

Sebbene i parametri non siano tuttora vincolanti per il giudice, in relazione ad essi il legislatore del 2014 non ha comunque riproposto il precedente schema che prevedeva che in nessun caso essi imponessero vincoli alla liquidazione ad opera del giudice. Oggi, invece, l’organo giudicante non potrà prescindere dai valori medi previsti dalla legge, dovendo anche motivare le ragioni degli ammessi scostamenti percentuali in aumento o diminuzione.

Ciò detto, i parametri forensi attualmente vigenti risultano indubbiamente strutturati in maniera più semplice, lineare e flessibile rispetto ai sistemi vigenti in passato e, se comparati alle vecchie tariffe, garantiscono un grado di trasparenza molto maggiore ai fini della determinazione del compenso degli avvocati.

Tali aspetti favoriscono anche una più agevole stima preventiva dei costi di difesa associati ad un determinato giudizio, permettendo all’assicuratore di monitorare con maggiore facilità l’impegno assunto con il proprio assicurato per il rimborso di tali costi.

Basti pensare, tra l’altro, che se in passato gli avvocati erano tendenzialmente restii a formulare il preventivo dei propri costi complessivi in relazione ad un determinato giudizio (anche tenuto conto dell’indubbia difficoltà di quantificare ex ante con precisione voci di costo riferite a frazioni di attività processuali singolarmente considerate), oggi il sistema dei parametri forensi calibrato sulle fasi del giudizio rende tale esercizio sicuramente meno ostico e più affidabile, con evidenti ricadute positive anche sul fronte dei rapporti tra assicurato e assicuratore.

(ii) Il principio di ragionevolezza dei costi di difesa

Fermo quanto si è detto nel paragrafo precedente, il fatto che i compensi addebitati all’assicurato dal suo consulente legale vengano ipoteticamente quantificati da quest’ultimo in formale ottemperanza dei criteri numerici riconducibili ai parametri previsti dalla legge non può ritenersi di per sé requisito sufficiente ai fini del rimborso integrale di tali costi da parte dell’assicuratore.

E’ per contro necessario che sia altresì garantito il rispetto di un ulteriore requisito, questa volta di carattere sostanziale: l’osservanza, cioè, del criterio della ragionevolezza dei costi di difesa sostenuti dall’assicurato.

Secondo quanto recentemente precisato dalla Suprema Corte[14], infatti, nell’assicurazione di responsabilità civile l’assicurato non ha diritto sempre e comunque alla rifusione da parte dell’assicuratore delle spese sostenute per resistere all’azione del terzo danneggiato ai sensi dell’articolo 1917, comma 3, c.c.

Al contrario, tale diritto deve escludersi quando sia dimostrabile che le spese sostenute potevano ragionevolmente essere evitate, o quantomeno ridotte. Ciò allorché, ad esempio, l’assicurato abbia scelto di resistere al giudizio promosso contro di lui dal danneggiato senza averne l’interesse né potendone ricavare alcun beneficio, oppure abbia agito in mala fede, oppure ancora abbia sostenuto spese sconsiderate.

In effetti, secondo il principio stabilito dai giudici di legittimità, l’eventualità che l’assicurato debba sostenere spese per resistere in giudizio costituisce un “rischio assicurato”, non meno dell’eventualità di dover risarcire il terzo danneggiato. Se dunque il rischio di sostenere spese di resistenza è riconducibile al concetto di danno al pari del rischio di assunzione del debito di responsabilità, formando oggetto di copertura assicurativa, anche in relazione ad esso sussiste un dovere dell’assicurato di “fare quanto gli è possibile” per evitarlo o diminuirlo, secondo la previsione di cui all’articolo 1914, comma 1, c.c. (c.d. “obbligo di salvataggio”).

Sulla falsariga di quanto appena esposto, si potrebbe ritenere che sussistano i presupposti per contestare all’assicurato il mancato rispetto del principio della ragionevolezza dei costi di difesa (e la conseguente legittimazione dell’assicuratore a rifiutare il rimborso integrale degli importi) a fronte di iniziative chiaramente inutili o sproporzionate sotto il profilo dell’adeguatezza della difesa rispetto alla domanda di risarcimento del danneggiato. Si pensi, ad esempio, alla nomina di un nutrito collegio di difensori per la gestione di un contenzioso di complessità modesta, oppure a casi in cui vi sia evidenza documentale di numerose immotivate duplicazioni di attività processuali.

Naturalmente, la delicatezza del tema impone che tale valutazione di ragionevolezza debba essere svolta caso per caso, tenendo conto di tutti gli aspetti rilevanti nel contesto specifico.

(iii) La determinazione dei compensi degli avvocati in caso di transazione della lite

In base ai principi di cui si è detto, applicabili alla quantificazione dei compensi degli avvocati in sede di accordo tra le parti, il parametro di riferimento per la determinazione delle spettanze nell’ambito di un giudizio di responsabilità civile è quello riconducile all’importo richiesto al momento della domanda formulata dal danneggiato.

Diversamente, secondo la giurisprudenza prevalente[15], quando il giudice decide la causa e liquida le spese di soccombenza, a rilevare sarà il valore della somma definita in sentenza.

Che cosa succede, tuttavia, nei casi in cui la causa non addivenga alla sua naturale conclusione, cioè alla pronuncia del giudice sulla domanda introduttiva del giudizio, per effetto della risoluzione amichevole della lite in un momento anteriore?

Secondo la Corte di Cassazione[16], “nella determinazione degli onorari dell’avvocato in una lite conclusasi con una transazione, poiché per la sussistenza delle reciproche concessioni ciascuna parte non è né vincitrice né perdente, la determinazione del valore della causa va compiuta avendo riguardo alla somma effettivamente corrisposta e non a quella originariamente richiesta, a nulla rilevando che il pagamento sia a carico del cliente o dell’avversario”.

In altre parole, se la somma di cui si chiede il risarcimento in sede di introduzione del giudizio risulta superata dall’intervenuta transazione, essa non potrà costituire un valido parametro di riferimento ai fini della determinazione del valore del giudizio dovendosi, viceversa, ritenere più razionale e congruo tenere conto della diversa somma definita in sede di transazione, presumibilmente a seguito di adeguata valutazione dell’effettiva alea del giudizio. Ne consegue che, in caso di transazione della lite, il valore della causa andrà determinato non già prendendo come riferimento la somma originariamente richiesta dall’attore, bensì quella effettivamente corrisposta[17].

Cenni alla copertura dei costi per l’assistenza di consulenti tecnici di parte

Da ultimo, è utile notare come spesso, nell’ambito di un giudizio di responsabilità civile o penale oppure nel contesto di un procedimento o un’indagine condotti da un’autorità di regolamentazione indipendente, gli assicurati decidano di avvalersi dell’assistenza di periti di parte, per lo studio di questioni attinenti agli addebiti oggetto del giudizio che presentino elementi di particolare complessità tecnica.

Anche il rimborso di tali spese è spesso previsto dalle clausole che disciplinano la gestione dei costi di difesa nell’ambito delle polizze D&O.

In ogni caso, è ragionevole ipotizzare che l’erogazione da parte dell’assicuratore del rimborso ai sensi di polizza delle competenze maturate da consulenti tecnici di parte venga disposta a consuntivo, previa verifica della documentazione comprovante le attività effettivamente svolte e la loro attinenza e necessità ai fini della difesa in giudizio dell’assicurato di riferimento.

Conclusioni

Come già sottolineato nei precedenti contributi in tema di polizze D&O, affinché tale sofisticato strumento di protezione assicurativa funzioni nel modo più appropriato e non nasconda criticità impreviste – sia in sede di assunzione del rischio, sia in caso di successivo sinistro – è opportuno che tanto la società contraente quanto i D&O assicurati si adoperino affinché la relativa copertura venga gestita in modo attento e secondo l’assetto più confacente alle rispettive esigenze concrete.

Questa raccomandazione assume particolare rilievo con riferimento alla garanzia di indennizzo delle spese legali, per la corretta gestione della quale è più che mai opportuno accertarsi di padroneggiare tutte le condizioni di copertura tramite adeguata verifica di una serie di aspetti tecnici, spesso ostici ai “non addetti ai lavori” e – soprattutto – soggetti a disciplina variabile da polizza a polizza.

Basti pensare, ad esempio, alle insidie sottese all’esatta delimitazione del perimetro della definizione contrattuale dei “Costi di difesa” e alle azioni che la polizza impone di porre in essere in caso di sinistro (spesso implicanti la necessità, a seconda dei casi, di ottenere dall’assicuratore l’approvazione alla nomina di un certo difensore o l’autorizzazione del relativo preventivo, e così via).

Particolarmente delicati sono, ad avviso di chi scrive, quegli aspetti della gestione delle spese legali che richiedono l’assunzione di iniziative autonome da parte delle persone fisiche beneficiarie della garanzia assicurativa, le quali spesso hanno una conoscenza piuttosto superficiale della polizza D&O stipulata dalla società contraente.

Per comprendere appieno la portata di quest’ultima osservazione occorre riflettere sul fatto che la grande maggioranza delle iniziative risarcitorie nei confronti dei D&O di una società di capitali sono riconducibili all’alveo della c.d. azione sociale di responsabilità esperita dalla società contraente (a seconda dei casi, in bonis oppure a seguito del suo assoggettamento ad una procedura concorsuale) contro i propri ex amministratori e sindaci.

In questo caso, la stessa società contraente e/o gli organi della procedura concorsuale hanno tutto l’interesse a porre tempestivamente in essere (eventualmente in concomitanza con i convenuti) gli adempimenti necessari alla corretta attivazione della copertura assicurativa disponibile in base alla polizza D&O in essere, onde poter contare su un’adeguata capienza rispetto alla propria richiesta risarcitoria grazie all’intervento della compagnia assicurativa tenuta a manlevare i convenuti.

Tali adempimenti si rifletteranno positivamente anche sul fronte della corretta attivazione della copertura dei costi di difesa sostenuti dai convenuti nell’ambito di quella stessa azione sociale di responsabilità.

Il discorso cambia, invece, quando gli assicurati sostengono spese legali che siano contrattualmente coperte da garanzia assicurativa pur in assenza di una azione civile di risarcimento a loro carico (si pensi alle spese relative a procedimenti penali o a indagini dell’IVASS, della Consob o della Banca d’Italia).

In tali ipotesi, la società contraente potrebbe non essere adeguatamente informata della stessa esistenza di un sinistro a carico del proprio D&O (soprattutto se l’incarico dell’assicurato presso di essa sia ormai cessato), oppure potrebbe disinteressarsi dell’attivazione dell’operatività della garanzia assicurativa (essendo indifferente rispetto all’intervento dell’assicuratore). Di conseguenza, sarà molto importante che lo stesso assicurato sia a conoscenza dello strumento assicurativo di cui dispone e si riveli adeguatamente preparato sul suo corretto funzionamento.

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[1] Secondo quanto disposto dall’art. 91 c.p.c., “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa (…)”; il successivo art. 92 c.p.c. stabilisce invece che “Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo, essa ha causato all’altra parte.

Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero (…)”.

[2] Cass. Civ., Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24159.

[3] LA TORRE (a cura di), Le assicurazioni, Milano, 2014, p. 328.

[4] Cass. Civ., Sez. I, 19 maggio 1969, n. 1724.

[5] Per determinare il peso dei rispettivi interessi dell’assicuratore e dell’assicurato al fine di ripartire le spese di resistenza tra gli stessi è importante stabilire se nell’applicazione della regola in esame debba essere presa in considerazione la richiesta risarcitoria iniziale ovvero la somma dovuta al danneggiato in forza dell’accertamento giudiziale. La questione è tutt’ora dibattuta in dottrina: alcuni autori (in particolare, Palermo e Durante) ritengono che occorre fare riferimento alla domanda attorea, altri (in particolare, Donati, De Strobel, Auletta, Angeloni, Vigorita e Steidi) ritengono invece che occorra prendere in considerazione la somma liquidata in sentenza o per effetto di un accordo transattivo.

[6] Va sottolineato, peraltro, che l’applicazione delle norme imperative richiamate nel testo può incontrare significativi limiti in un contesto globale all’interno del quale sempre più spesso i grandi gruppi multinazionali garantiscono protezione assicurativa ai soggetti apicali delle proprie consociate tramite l’attivazione di programmi internazionali (D&O Liability Insurance Programs) di gruppo. Sotto questo profilo, particolare attenzione si suggerisce a chi assume un ruolo apicale presso una consociata italiana o estera di un gruppo societario di questo tipo, in considerazione del fatto che il descritto meccanismo di sostituzione in favore della norma di diritto italiano più favorevole all’assicurato potrebbe non trovare applicazione allorché la polizza D&O operante nel caso specifico sia soggetta ad un diritto diverso da quello italiano e il rischio assicurato risulti localizzato in un Paese estero (tipicamente, nel caso in cui l’eventuale atto di mismanagement richiamato dalla domanda risarcitoria sia stato posto in essere dal D&O al di fuori dei confini italiani). Per una panoramica delle problematiche riconducibili all’assicurazione dei rischi tramite programmi internazionali, cfr. ROBERTO, The Rise of Global Insurance Policies, in Insurance Law, 2016, pp. 21 ss.

[7] Cass. Civ., Sez. III, 29 febbraio 2016, n. 3899.

[8] Cass. Civ., Sez. VI, 14 novembre 2016, n. 23180.

[9] Trib. Milano, Sez. XII, 21 settembre 2017, n. 9507/2017.

[10] Così l’Art. 12 (“Operazioni vietate“) del D.Lgs. 9 settembre 2005, n. 209 (“Codice delle assicurazioni private”), nella versione da ultimo aggiornata ad opera del D.Lgs. 21 maggio 2018, n. 68.

[11] In particolare, per quanto riguarda le controversie relative alle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, la Corte Costituzionale si è pronunciata con sentenza del 27 giugno 2012, n. 162, la quale ha sancito l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. Codice del processo amministrativo) nella parte in cui attribuivano tali procedimenti alla giurisdizione esclusiva amministrativa, con particolare riferimento al T.A.R. del Lazio – sede di Roma.

I principi appena descritti sono successivamente stati estesi dalla Corte Costituzionale anche alle controversie relative a provvedimenti sanzionatori di natura pecuniaria adottati dalla Banca d’Italia, con sentenza n. 94 del 15 aprile 2014 che ha devoluto anche in questo caso la relativa giurisdizione al giudice ordinario, ribadendo l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega (art. 76 Cost.) delle disposizioni del Codice del processo amministrativo.

[12] Cfr. Regio Decreto 17 novembre 1933, n. 1578.

[13] Più recentemente, il D.M. n. 55/2014 ha subito alcune modifiche ad opera del D.M. 8 marzo 2018, n. 37, che è intervenuto (senza tuttavia variare l’impostazione sistematica generale dei parametri di cui si è detto) su una serie di aspetti riguardanti, tra l’altro, l’attività penale, l’attività arbitrale, l’assistenza di più soggetti aventi la stessa posizione processuale o procedimentale, i giudizi dinanzi al T.A.R. e al Consiglio di Stato, i procedimenti di mediazione e negoziazione assistita, l’attività stragiudiziale e il c.d. “avvocato telematico”.

Merita inoltre ricordare che, l’anno precedente a tale ultimo intervento, la Legge 4 dicembre 2017, n. 172 di conversione del Decreto Fiscale 2018 (D.L. 148/2017) aveva introdotto l’obbligatorietà di un c.d. “equo compenso” per gli avvocati (da ritenersi tale se proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, e comunque non inferiore a quelli previsti dalle apposite tabelle ministeriali), quantomeno nell’ambito dei rapporti con alcuni contraenti considerati forti, come le grandi imprese e le pubbliche amministrazioni. In merito alla recente evoluzione della normativa in materia di compensi agli avvvocati, cfr. GIURDANELLA-ANTOCI, I nuovi parametri forensi dopo il D.M. 37/2018, Bologna, 2018.

[14] Cass. Civ., Sez. III, 19 marzo 2015, n. 5479.

[15] Cass. Civ., Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21256; conf. Cass. Civ., Sez. III, 29 febbraio 2016, n. 3903. In precedenza, Cass., Sez. Un., 11 settembre 2007, n. 19014 aveva precisato che “se la domanda è accolta solo parzialmente si impone sempre un adeguamento degli onorari all’effettiva portata della controversia che è quella espressa dal decisum. Ciò cale anche nel caso in cui il giudizio prosegua soltanto per una parte dell’originaria domanda“.

[16] Cass. Civ., Sez. III, 14 febbraio 2013, n. 3660; Tale presa di posizione è in armonia con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’applicabilità del principio generale che stabilisce che il valore della causa si determina in base alle norme del codice di procedura civile (art. 10), avendo riguardo all’oggetto della domanda considerato al momento iniziale della lite, trova un limite nei casi in cui al momento dell’instaurazione del giudizio non sia possibile indicare il “quantum” (ad es., allorché la domanda di condanna sia formulata con riserva di quantificazione in corso di giudizio). In tale ipotesi si rende invece indispensabile far riferimento al valore definito dalle parti in altro modo, ad esempio in sede di transazione (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 25 febbraio 2014, n. 4488; conf. Cass. Civ., Sez. II, 31 gennaio 2011, n. 2188).

[17] Così CONSALES, Onorario avvocati: in caso di transazione il valore della causa si determina con riguardo alla somma effettivamente corrisposta e non a quella originariamente richiesta, 18 febbraio 2013, su www.diritto.it.

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