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Tutto come prima ?

Un anno fa in un convegno a Torino ho sostenuto che, dopo la crisi, non si può tornare alla situazione quo ante senza introdurre riforme consistenti. Avremmo altre crisi ricorrenti, se non cambiassimo qualcosa. I punti sui quali dovremmo fissare la nostra attenzione erano e sono, a mio giudizio: 
– il funzionamento degli automatismi nei mercati finanziari, già stigmatizzati da Robert Shiller (purtroppo inascoltato) nel 2000; 
– il forsennato uso del fair value e delle associate tecniche contabili nelle società finanziarie; 
– l’uso di strumenti derivati anche quando sarebbero state possibili normali tecniche assicurative o contabili di protezione dai rischi; 
– la remunerazione e le buonuscite dei manager.


Gli automatismi
Il 20% degli scambi sui mercati finanziari europei, spiegava il Wall Street Journal due anni fa, viene effettuato direttamente da computer, che sono i nuovi traders, senza l’intervento di traders umani. Ma anche gli operatori umani comprano e vendono titoli in base ad algoritmi, che nulla hanno a che vedere con la vera funzione delle Borse, che è quella, diceva sempre Shiller nel suo “Irrational Exhuberance“, “di dare liquidità agli investimenti, di finanziare gli imprenditori che si assumono rischi e pubblicizzano un mare di informazioni utili sulle società”. Gli algoritmi invece vi fanno vendere quando un titolo è salito più delle aspettative, magari proprio perché la società si è avventurata in un investimento promettente. Nel momento in cui sta producendo il suo massimo sforzo, il mercato le toglie ossigeno perché gli algoritmi hanno deciso di vendere. Così l’imprenditore vede le sue garanzie scendere in banca e diminuire il suo affidamento. Il contrario di ciò che gli servirebbe. 
Inoltre gli algoritmi spesso conducono a overshooting, come in tutti i fenomeni soggetti a regolazione, come sanno bene gli ingegneri, ma forse lo ignorano gli ingegneri finanziari. Le spinte in una direzione, se non controbilanciate da opportuni feedback, producono eccessi. 
Ma le banche non sono orientate a fare quello che diceva Shiller. Recentemente abbiamo saputo che Goldman Sachs dispone di un algoritmo che le fa suggerire del trading qualche centesimo di secondo prima che gli altri intervengano nella stessa direzione: lucrando sui tempi, come faceva il decano Rockefeller, che aveva saputo della sconfitta di Napoleone a Waterloo prima degli altri. La tecnica si chiama Htf (High Frequency Trading) e consente anche di mettere alla prova le quotazioni con ordini intenzionalmente fasulli e impossibili da rintracciare, spingendo l’ignaro investitore verso un prezzo desiderato: un inganno vero e proprio. In Borsa si commercia sempre meno il prodotto (cioè il reddito sostenibile nel tempo di un’impresa) e sempre di più la proprietà “qui e ora” dell’impresa e dei suoi pezzi (Antonio Quaglio su Il Sole 24 Ore del 19 ottobre 2008). È possibile ridurre il contenuto speculativo degli scambi di Borsa (ineliminabile) imponendo ad esempio dei tempi per l’annuncio delle offerte? È il momento forse di rivedere gli algoritmi e di riportarli a una logica più aderente all’economia reale. Se questo farà scendere l’occupazione nelle varie banche d’affari, tanto peggio (o tanto meglio).


Fair value e principi contabili
Quando alla fine degli anni ’70 con altri amici proponevamo l’adozione in Italia della IV Direttiva europea sui bilanci (Cesec: Il bilancio per gli anni ’80, Franco Angeli, Milano, 1981), chiedevamo a gran voce l’adozione di criteri di “quadro fedele”, traduzione italiana di true and fair view. Il true poi si è perso per strada: è rimasto il fair view, ora fair value, tradotto con valore equo, che tragicamente nel 2005, con gli standard IAS 39, è stato esteso alla valutazione degli strumenti finanziari. Sono standard pensati per “imprese che decidono di quotarsi in Borsa, che cercano l’Opa, che vogliono fondersi. I principi ammiccano al ruolo protagonistico dei top manager, che vedono moltiplicata la loro possibilità di prelevare bonus reali da valori di bilancio in parte virtuali” (Antonio Quaglio, ibid.) Se c’è un mercato (il titolo è quotato in Borsa), si scrive in bilancio il valore di mercato.

Adesso ci si lamenta che il fair value sia prociclico: altro che prociclico! È un circolo vizioso: ciò che hai valutato secondo l’ultima follia di un analista diventa fair value e costituisce la base per altre valutazioni, come in una catena di Sant’Antonio (Madoff insegna). E quando non c’è il mercato? Si finge che ci sia e si usa il cosiddetto mark to market (di cui sono stati maestri i manager di Enron) oppure si inventano dei modelli (mark to model) che funzionano come un mercato virtuale. Il bello è che si sapeva quanti titoli così valutati stavano nel portafoglio delle banche, anche italiane. In genere per un valore superiore alla loro capitalizzazione. Autorità e regolatori hanno fermato questa follia mettendo il fair value in quarantena quando i buoi erano già scappati dalla stalla, trovando aperte le porte al ribasso proprio ad opera del prociclico fair value!

Ora a qualcosa di serio si dovrà pur tornare: cost or market, il minore dei due, era una buona e prudente cosa, ispirata al true and fair view
La riforma dei principi contabili è in corso, ma incontra vari ostacoli. Di questo parla in questo numero Mauro Bini, un grande esperto. Fatto sta che lo Iasb aveva promesso la riforma per fine 2009, in modo che le società potessero tenerne conto nei bilanci 2009. Ma ora la Commissione Ue ha bocciato la bozza Iasb. 
Nel frattempo varrà la pena ripensare alle Opa a leva finanziaria (un argomento connesso), che scaricano debito sulla società acquisita. Non so bene quale possa essere il rimedio, ma credo che un limite sul debito risultante, in relazione al margine operativo lordo dell’impresa, possa essere efficace. 


I derivati
Che la Borsa contenga del gambling è del tutto pacifico. Vendere allo scoperto non ha nulla a che vedere con la definizione di Borsa data da Shiller, anche se c’è qualcuno che dice che la scommessa sulla caduta di un titolo è una manifestazione di sfiducia che avvicina il suo valore alla verità. In ogni caso dieci anni fa i derivati stavano nel mondo delle scommesse e non della finanza. Varrà la pena riflettere sul processo che ha condotto a cambiare registro.

I derivati hanno sostituito prodotti assicurativi e metodi contabili che nel passato hanno svolto degnamente il loro ruolo. I rischi di cambio erano assicurati con una polizza, in cui era il broker a scommettere sulla valuta, non l’impresa. I rischi sulle materie prime erano coperti da polizze o da futures o da acquisti prematuri. I rischi su crediti erano coperti a bilancio con un “fondo svalutazione crediti”.

Che senso ha che gli Amministratori, ad esempio di Parmalat, comperino derivati sul petrolio o che una casa editrice si riempia di derivati agricoli? Forse per coprire il rischio sul prezzo della carta, che viene dai pioppi? E che senso ha che i grandi Comuni si siano riempiti di derivati per coprire rischi sui tassi con strumenti più costosi dei possibili rincari sui tassi a venire? In questi mesi del “dopo-crisi” i derivati hanno continuato a essere trattati bilateralmente fra privati (Otc, ovvero Over the counter), senza regolamentazione e senza trasparenza: a metà 2009 il loro nominale sottostante era di 300 miliardi di euro, 9 volte il Pil mondiale.

Forse una regolamentazione è necessaria. Anche qui perderemo posti di lavoro per yuppy. Non è una tragedia.


La remunerazione dei manager
Ho frequentato Consigli i cui Comitati Remunerazione andavano alla ricerca dei migliori benchmark internazionali per capire come remunerare i propri manager. Viene un dubbio: quale sarebbe stato in tempi non sospetti il benchmark per un banchiere? Forse quello di Richard Fuld, il presidente della Lehman Brothers, che prima di farla fallire intascò, in 20 anni, un miliardo di dollari? E qual era il benchmark per un assicuratore? Forse quello di Martin Sullivan di AIG, che prima di fallire si era preso 22 milioni all’anno per tre anni e andandosene, lo scorso giugno 2008, si mise in tasca 40 milioni di dollari? Vediamo intanto che le paghe dei Ceo sembrano tuttora slegate dai risultati, come dice un’analisi Bocconi di Arnaldo Camuffo e Severino Salvemini. Penso che dovremmo valutare con prudenza i benchmark, traguardando criteri etici e non soltanto di shareholder value, mentre le buonuscite possono essere ricondotte a criteri in uso presso le associazioni dei dirigenti. Anche qui alcuni manager se ne potrebbero andare alla ricerca dell’Araba Fenice. Buon viaggio. 
Discorsi analoghi si dovrebbero fare sulle stock options, che hanno notevolmente contribuito a orientare il management verso risultati a breve termine. In effetti, anche quando il periodo di lockup è abbastanza lungo, in prossimità del realizzo si manifestano sempre effetti di breve. Un sano ritorno agli stock grants con dei lockups almeno quadriennali sarebbe preferibile.

È un periodo in cui si intrecciano varie ricette “globali”, per dare una risposta a una crisi “globale”. Ma non si vede all’orizzonte nessuna struttura in attesa di ricevere un’investitura mondiale. 
Forse è meglio cominciare da piccole/grandi modifiche, che per prudenza è meglio non chiamare “riforme”.

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