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Società benefit: una scelta sempre attuale

La centralità crescente degli obiettivi di sostenibilità, imposti anche per legge a una platea sempre più grande di aziende, spinge a chiedersi se le imprese benefit abbiano esaurito la propria missione

Deepmind/Unsplash

Un modello rivoluzionario quello delle società benefit che ha posto l’Italia all’avanguardia a livello mondiale. Dopo gli Stati Uniti, infatti, il nostro Paese è stato il primo a prevedere una forma di impresa che, per statuto, non perseguisse esclusivamente il mero profitto ma puntasse anche al “beneficio comune”. Dietro questa definizione, che include il perseguimento di uno o più effetti positivi su persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interessi, è facile leggere tutte gli ingredienti di quella che oggi è definita sostenibilità. Non a caso oggi sono molti coloro i quali si chiedono se questo modello possa sopravvivere all’avanzata del concetto di “successo sostenibile” introdotto dal Codice di corporate governance nel 2020 e se non esista un rischio sovrapposizione alla luce anche dei nuovi impegni normativi.

Nedcommunity, con il partner Andersen, ha cercato di dare una risposta in un convegno organizzato il 15 marzo scorso dal titolo Quale evoluzione per la Società Benefit nel nuovo framework della sostenibilità? facendo intervenire come di consueto esperti di corporate governance e imprenditori.

Sandro Catani, of Counsel Andersen, e presidente del Comitato Saggi Nedcommunity, ha spiegato che “il seminario nasce proprio con il tentativo di cercare di fare chiarezza visto che anche le altre società stanno diventando in un certo senso benefit. Se anche le altre aziende hanno da render conto del loro impatto sulla società e sugli stakeholder in generale, allora non c’è più spazio per le imprese benefit? Vi anticipo che lo spazio invece esiste ancora. La benefit va mantenuta per la sua ricchezza di innovazione e organizzazione aziendale, ma non solo”.

Ne è convinto Guido Ferrarini, docente dell’Università di Genova e presidente del Comitato scientifico Nedcommunity che ha individuato una prima sostanziale differenza fra società benefit e aziende che presto, entro giugno, dovranno rispondere ai nuovi standard di sostenibilità definiti dalla CSRD, Corporate Sustainability Reporting Directive. Dovranno infatti essere resi pubblici i dati su impatto sull’ambiente, sulle persone, sul pianeta e sui rischi di sostenibilità.

“Le benefit – spiega Ferrarini – da un punto di vista giuridico, si differenziano per l’inclusione in statuto della missione sociale dell’impresa ma vorrei aggiungere che c’è altro: in queste aziende esiste una vocazione particolare al ‘beneficio comune’ mentre le società che ricadono nell’ambito della CSRD dovranno perseguirlo e misurarlo per obbligo rispetto al mercato e agli investitori. Se ci fosse tanto tempo ritengo che la scelta volontaria delle benefit sarebbe la strada giusta per realizzare concretamente la sostenibilità. D’altro canto, ci saranno casi in cui la corporate due diligence si applicherà anche alle benefit: ecco perché è fondamentale lavorare sulla reportistica e su corretti metodi di misurazione”.

Un aspetto che nelle benefit, invece, è piuttosto soft come ha ricordato Francesco Marconi, partner Andersen, ripercorrendo la storia delle società benefit in Italia: “Il vero boom si è registrato nel 2021. La pandemia ha sicuramente spinto a ripensare il concetto di impresa legandolo al benessere delle persone e interrogandosi sull’impatto che imprenditore e management hanno poi sulla società in cui operano. A marzo abbiamo sfondato il muro delle tremila società benefit in Italia. Un campione ancora non significativo ma si incomincia a vedere un trend interessante soprattutto se si va a guardare che tipo di aziende costituiscono questa platea. Si tratta per lo più di società medio piccole nel mondo dei servizi. L’adattamento a questa normativa, che nasce volutamente generica, impone obblighi di trasparenza in un generale contesto di libertà di rendicontazione che per soggetti medio grandi cambierà in virtù della normativa europea. A questo punto mi chiedo: ‘Perché le quotate non sono benefit?’. Se vediamo Euronext ce n’è soltanto una. I problemi emersi sono due: le quotate hanno un tema di successo sostenibile recepito che obbliga a confrontarsi con gli stakeholder ma il vero nodo è rappresentato dal recesso, dalla modifica del soggetto sociale, e del suo impatto sul business. Dal mio punto di vista il mondo benefit avrà un ulteriore sviluppo perché sarà anche imposto in primo luogo dai soggetti di grandi dimensioni che dovranno rispettare obblighi di controllo della propria filiera”.

Nel corso del convegno sono state anche portate le testimonianze di imprenditori che hanno fatto la scelta di trasformare le proprie aziende in società benefit. Questo è il caso di Giangiacomo Ibba, presidente di Fratelli Ibba, Abbi Group, azienda sarda di grande distribuzione, con 250 punti vendita sul territorio, 3mila impiegati e un fatturato di 700 milioni di euro. “Per me è stato illuminante il concetto della società benefit, visto che nella mia concezione l’azienda non ha esclusivamente lo scopo di perseguire il guadagno economico ma anche quello di far parte di un territorio al quale conferisce ricchezza e benessere. Per questo motivo – ha raccontato – abbiamo iniziato prima a redigere il report e in seguito anche il bilancio di sostenibilità curando in particolare la fase di misurazione. Poi abbiamo deciso di diventare società benefit: metterlo nell’oggetto sociale equivale a decidere di indossare un vestito ma a quel punto bisogna essere coerenti perché non rimanga un fatto formale”.

Michela Conterno, ad LATI Industria Termoplastici S.p.A., società tra i più importanti produttori europei di termoplastici tecnici per uso ingegneristico con 200 milioni di fatturato e 300 dipendenti, ha ricordato che la sua azienda “nasce nel 1945 da un’intuizione di mio nonno che ha dato vita a una sorta di progetto di economia circolare ante litteram. Inventò, infatti, un modo per riciclare materiale plastico da residuati bellici. In questi 80 anno il cerchio delle tre generazioni si chiude con la creazione delle società benefit. La società benefit la trovo molto italiana perché affonda le proprie radici nella storia dell’economia civile e nel socialismo olivettiano. Una differenza fra multinazionali e società quotate rispetto alle familiari è l’importanza che diamo alle persone. Qui ci stiamo chiedendo se la società benefit sopravviverà nella giungla degli standard Esg? Secondo me la società benefit rimarrà viva e vegeta perché va oltre il profitto per scelta, non racconta cosa fai ma attesta chi sei”.

Anche Andrea Ferlin, Owner e CEO Professional Link, ha preso spunto da Adriano Olivetti per palare della sua società che pur non essendo una benefit a tutti gli effetti, ne incarna i principi: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Partirei da qui per raccontare Professional link, realtà benefit nei fatti a cui ancora manca il bollino. Nella nostra azienda di telecomunicazioni abbiamo capito che il fare impresa ha a che fare con più futuri possibili e abbiamo ribaltato la normale narrazione del sé. Vogliamo fare in modo che i bisogni reali delle persone vengano soddisfatti dalle tecnologie e non fare in modo che le tecnologie creino nuovi bisogni. Abbiamo detto ai nostri commerciali che non vengono misurati sulla base degli obiettivi di vendita ma sulla loro capacità di andare a scovare e intercettare i bisogni dei nostri clienti per riuscire a confezionare delle soluzioni che risolvano il problema. La crescita dell’azienda è stata basata sull’alimentazione di una rete di relazioni all’interno che ci potesse rendere affidabili anche agli occhi dei clienti: quindi è stato fondamentale creare un ambiente coeso, fare di un gruppo di persone una squadra, creare un senso di comunità”.

Silvia Stefini, presidente di Chapter Zero Italy, The Nedcommunity Climate Forum, si è soffermata sulla centralità della misurazione degli obiettivi di sostenibilità: “Sono nata con la cultura del numero: se non si è in grado di misurare non riesci a fare abbastanza. Il numero sprona l’organizzazione e muove tutti verso un obiettivo. Quando pensiamo a una società benefit tutto sta nella capacità di ricondurre a quelli che sono gli obiettivi veri e riuscire a misurarli. Questa oggi è la vera sfida, in prima luogo nel campo della sostenibilità, e a maggior ragione per le benefit”.

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