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Public companies: il ruolo degli investitori istituzionali in Italia

Il tema della partecipazione degli azionisti alle assemblee societarie

Il tema della partecipazione degli azionisti alle assemblee societarie è da tempo oggetto di un acceso dibattito ma In questi ultimi anni si è assistito ad un cambiamento di tendenza significativo, determinato dall’introduzione della nuova normativa europea – la cosiddetta “Record date” – che regola in modo flessibile il deposito delle azioni possedute, riducendo drasticamente i tempi di indisponibilità delle azioni stesse.
La presenza del “mercato” alle assemblee è infatti aumentata considerevolmente riducendo di conseguenza il peso dominante dei gruppi di controllo.
Una recente ricerca di Georgeson (un importante provider mondiale di servizi di consulenza strategica nelle relazioni con gli azionisti) ha quantificato la partecipazione delle minoranze alle Assemblee 2014 nel 25,4%, rispetto al 10,7% del 2010.
In proposito, il caso Telecom è illuminante: nelle Assemblee del dicembre 2013 e dell’aprile 2014 il capitale in possesso del mercato è risultato prevalente rispetto a quello dell’azionista di riferimento. Nello scorso aprile, nella votazione per il rinnovo del C.d.A, il 50,28% dei presenti ha votato a favore della lista presentata dagli azionisti di minoranza definita impropriamente “di Assogestioni”, contro il 45,5% di consensi per la lista presentata dall’azionista di riferimento (Telco). Tuttavia, un’anomalia è intervenuta nell’attribuzione dei Consiglieri: dato che la lista di minoranza era rappresentata solo da tre candidati, alla lista Telco sono andati a completamento dieci Consiglieri.
Questa anomalia ha creato i presupposti per un dibattito anche sulla stampa circa il ruolo del mercato nella nomina dei Consigli, con la richiesta specifica agli investitori istituzionali che presentano liste di minoranza di ampliare il numero dei propri candidati.
La domanda che ci si pone alla base di questo dibattito è se e come potranno mai realizzarsi delle public companies nel nostro Paese senza il loro intervento.
La prima risposta, banale ma sostanziale, è che la Direttiva europea fondante dei Fondi Comuni (la 85/611) vieta agli stessi di avere un ruolo diretto o indiretto nella gestione di imprese ed un’analoga normativa della Banca d‘Italia del 1998, ribadita nel 2005, reitera tale divieto. Tuttavia a mio avviso ci sono possibilità di migliorare la governance delle nostre imprese senza dover ipotizzare ruoli maggiori e comunque non consentiti agli investitori istituzionali.
La normativa delle liste di minoranza, che sono una peculiarità italiana, presenta anche degli aspetti positivi per cui non va modificata. E’ peraltro evidente che i criteri di nomina dei C.d.A italiani, soprattutto nel settore bancario/finanziario, non sono ottimali e determinano composizioni spesso pletoriche e comunque insoddisfacenti. Le modalità di nomina possono e debbono essere riviste e in quest’opera di miglioramento il contributo degli investitori istituzionali può e deve essere rilevante, poiché essi svolgono anche una incisiva azione di watch dog, un ruolo di “cane da guardia istituzionale”.
Però, riterrei inopportuno attribuire agli investitori istituzionali un ruolo nella nomina della maggioranza dei Consiglieri. E’ noto, infatti, che nella presentazione delle liste di minoranza gli investitori istituzionali esteri hanno un peso prevalente rispetto a quelli italiani e sono convinto che difficilmente sarebbero disponibili a sottoscrivere liste potenzialmente di maggioranza.

Alla luce di quanto detto, indico alcune possibili modifiche da proporre.

  • L’inserimento negli Statuti della possibilità per i CdA di presentare proprie liste.
    Questa è una prassi adottata negli USA che non sempre ha dato buoni risultati. Clamoroso è stato il caso Enron, dove nomine addomesticate furono una causa non secondaria del fallimento della società. Una norma su questo tema deve essere quindi accompagnata da un rigoroso controllo delle minoranze qualificate. E tale accompagnamento può essere fatto solo attraverso un’attenta e incisiva partecipazione alle Assemblee. La governance societaria deve prevedere un forte “Comitato nomine” che ottenga una rappresentanza significativa di amministratori indipendenti di minoranza. E’ pertanto necessario che venga formulata una esortazione in tal senso agli investitori istituzionali italiani. Infatti, secondo la citata indagine Georgeson, risulta che nel 2014 essi abbiano partecipato alle assemblee col 17,8% delle azioni possedute, mentre quelli esteri lo hanno fatto col 62,6%. In proposito in Italia esiste già un esempio molto positivo di nomina su presentazione di lista da parte del CdA: si tratta dell’assemblea di Prysmian, dove la lista in parola ha ottenuto maggiori suffragi rispetto ad altre liste di minoranza. E Prysmian è un’autentica public company.
  • Il limite del numero massimo di tre mandati triennali per gli amministratori non esecutivi, con l’eliminazione dell’attuale discrezionalità del Consiglio che può consentire mandati ulteriori mantenendo la qualifica di indipendenti.
  • La riduzione della quota di partecipazione azionaria necessaria per la presentazione di liste di minoranza.
  • L’introduzione dello “staggered board”, vale a dire mandati consiliari con scadenze programmate. Una misura di non facile realizzazione ma che vale la pena di analizzare, meglio senza rifiuti aprioristici.

Qualsiasi modifica nei criteri di nomina richiede comunque un comportamento attivo degli azionisti di minoranza, soprattutto degli istituzionali che possono svolgere un ruolo decisivo nel miglioramento della governance societaria.
La progressiva dissoluzione dei patti di sindacato darà maggior peso e importanza alla Assemblee.
L’identificazione di Amministratori indipendenti e qualificati, unitamente a presenze assembleari attente e consistenti, ha già dato risultati concreti. Un esempio recente è la bocciatura in assemblee di società con azionista minoritario ma di riferimento pubblico della cosiddetta “clausola etica”, vale a dire l’inserimento di norme preclusive alla nomina non accompagnate da chiarezza e potenzialmente negative per gli azionisti. La bocciatura è avvenuta grazie ad una informativa ampia e trasparente agli azionisti sui potenziali effetti negativi, informativa richiesta dagli amministratori indipendenti e votata anche all’unanimità dagli amministratori di nomina pubblica.
La presentazione di liste di minoranza è quindi tuttora da difendere ma deve essere sempre più il frutto di scelte professionali e venire accompagnata da un’azione di stimolo verso i gruppi di controllo. Gli effetti positivi sulla governance societaria si possono ottenere anche senza public companies di tipo anglosassone dove, a differenza della situazione europea e in particolare della nostra italiana, non esistono maggioranze di controllo consolidate e più ampia e articolata è la gamma degli investitori istituzionali operanti. L’importante è utilizzare al meglio i criteri esistenti.
Prendendo spunto dalla vicenda inizialmente trattata, il “caso Telecom”, la minoranza/maggioranza nelle prossime assemblee potrebbe chiedere all’azionista di riferimento maggiori e migliori chiarimenti sui criteri adottati nella scelta dei candidati, oggi maggioranza in Consiglio, riguardo all’effettiva aderenza dei criteri utilizzati all’esigenza della più efficace gestione.
Questo è un puro esempio che, peraltro, mi porta ad una considerazione finale.
Un tema da affrontare è quello della valutazione consuntiva dell’attività svolta dai singoli consiglieri e ciò è essenziale per verificare l’opportunità di rinnovare una candidatura alla scadenza naturale triennale.
E’ indubbiamente una soluzione difficile da formulare ma che merita un’attenta analisi poiché costituirebbe un forte stimolo per tutti gli amministratori, soprattutto quelli indipendenti, ad operare in modo sempre più impegnato e incisivo,per il bene della società in cui hanno un ruolo e per ottenere il rinnovo della nomina.

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Francesco Taranto, già Membro del Consiglio Direttivo di Nedcommunity ([email protected])


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