Protezionismo economico e crisi della sostenibilità: la soluzione è l’autodisciplina
L’aumento delle barriere commerciali, le guerre dei dazi e l’eccesso normativo rappresentano un ostacolo alla crescita sostenibile. In questo scenario bisogna compiere un esercizio di realismo con l’adozione volontaria di standard Esg

La prima metà del 2025, anche senza citare – ma senza dimenticare – terribili eventi bellici e gravi crisi internazionali e umanitarie, è stata decisamente tumultuosa sul fronte economico, in particolare per quanto riguarda gli scambi commerciali e, in parte, le scelte regolamentari sulla governance. Due fenomeni hanno sicuramente lasciato il segno: da un lato, il rialzare la testa di politiche protezionistiche, e qui ovviamente il riferimento è agli Stati Uniti; dall’altro e più vicino ai temi di questa Rivista, un almeno parziale arretramento dell’entusiasmo regolatorio in tema di sostenibilità. Se questa seconda tendenza è perseguita con gusto dall’America di Trump, il cambio di approccio, pur meno estremo, è forse ancor più notevole nei ripensamenti della UE. Senza l’ambizione, nelle poche righe a disposizione, di indagare scientificamente le correlazioni tra fenomeni così sfaccettati e complessi, vorrei piuttosto proporre una breve riflessione sul fatto che essi appaiono certamente legati.
Gli eccessi della CSDD
Partiamo dalla sostenibilità in Europa. Confesso di essere tra quelli che, pur convinti che una crescente attenzione agli impatti socio-ambientali dell’attività d’impresa e ai fattori ESG sia desiderabile e per certi versi imprescindibile (anche per i rischi e le opportunità che essi comportano), ritengono anche che la cosiddetta direttiva CSDD, pur nella sua versione mitigata, si fosse spinta troppo oltre o, più precisamente, presentasse troppe ambiguità e difficoltà interpretative. Ho d’altronde sempre nutrito qualche dubbio sull’efficacia concreta e il valore prescrittivo delle formule sul successo sostenibile e sulla affidabilità e comparabilità delle informazioni di carattere non finanziario, quando ad esse si attribuiscono obiettivi molto ampi ed eterogenei. Intendiamoci: queste mie perplessità non erano e non sono espressione di un cuore di pietra vetero-capitalista ma, quasi al contrario, derivano dal timore che l’eccesso di norme francamente piuttosto confuse, comunque onerose e non sempre meditate, distogliesse l’attenzione dalla definizione di regole chiare e applicabili in modo netto e causasse una reazione contraria, come poi puntualmente si è verificato.
Anche prescindendo dai limiti tecnici della disciplina in corso di elaborazione e dalle resistenze interne, è però chiaro che una avanzata e ambiziosa politica di sostenibilità a livello europeo è difficilmente sostenibile (pun intended) se non condivisa a livello internazionale. Da un lato, essa genera, almeno nel breve termine, taluni vantaggi competitivi per i Paesi meno severi che, superato un certo livello, sono difficili da ignorare; dall’altro, essa può nei fatti rappresentare una barriera non tariffaria che, per quanto giuridicamente compatibile con le regole del commercio internazionale esistenti, induce altri ordinamenti a adottare contromisure. Non che ciò giustifichi le irrazionali, confuse e poco stabili iniziative tariffarie della presidenza USA, che peraltro hanno anche altri fini (se vi si può ravvisare una logica). In ogni caso, pur senza poter dire quale sia la causa e quale l’effetto, l’Europa si trova compressa tra attori geopolitici ed economici dalle prospettive molto diverse. Se volgiamo lo sguardo a ovest troviamo una America che si chiude agli scambi internazionali con la (più o meno realistica) ambizione di riportare la produzione all’interno dei confini nazionali, e che comunque osteggia apertamente quasi tutti gli obiettivi ESG. Se, invece, ci rivolgiamo a est incontriamo sistemi e concorrenti tradizionalmente meno concentrati su queste variabili. In un simile contesto è dunque difficile per l’Europa perseguire insieme competitività, flessibilità e nuovi ed estensivi obblighi di sostenibilità per le imprese.
Spazio all’autodisciplina
Tutto ciò non significa, però, rinunciare a una serie di valori che, se ben giocati, possono rappresentare anche un vantaggio competitivo europeo. Significa innanzitutto, sul fronte delle norme imperative, in un periodo già tanto complesso per non dire pericoloso, compiere un esercizio di realismo, forse all’insegna del motto per cui il meglio è nemico del bene, e cercare di concentrarsi su poche regole chiare su ambiente e rispetto dei diversi stakeholders dell’impresa. In questo modo poter fare affidamento su meno regole, potrebbe agevolare l’operato di autorità e tribunali e consentire agli stessi “delusi” dai ripensamenti della direttiva Omnibus di vedere il bicchiere mezzo pieno. D’altro lato, nulla esclude e, anzi, assume maggior valore distintivo e quindi potenzialmente più rilievo, l’adozione volontaria di standard di autodisciplina nella direzione che stiamo discutendo, se essi risultano veramente premianti. Ed ecco che allora il governo societario, la preparazione e il ruolo attivo degli amministratori, il dialogo con investitori e altri portatori di interesse, divengono ancora più centrali e strategici. La qualità di queste regole, che in tale prospettiva possono dirsi di processo, diviene il veicolo attraverso il quale le imprese possono spontaneamente adeguarsi all’evoluzione della realtà, strada talvolta preferibile alla imposizione dall’alto di contenuti e obiettivi specifici.