Imprese e Imprenditori

Minichilli: governance bussola dei passaggi generazionali

Il docente della Bocconi e associato Nedcommunity, prendendo spunto dal recente codice di autodisciplina per le imprese familiari di AIDAF e dall'impegno sullo stesso fronte di Nedcommunity, ci parla della necessità di un governo societario moderno per queste aziende che esalti i punti di forza e riduca quelli di debolezza

Alessandro Minichilli

AIDAF e l’Università Bocconi hanno di recente promosso i Princìpi per il Governo delle Società Non Quotate a Controllo Familiare. Codice di Autodisciplina, affermando che l’adozione volontaria di un modello di governo societario evoluto e moderno, anche tra le imprese non quotate, può migliorare i processi decisionali nelle imprese familiari, contribuendo così ad aumentare la loro reputazione e competitività internazionale. Roberto Cravero, coordinatore del Reflection Group sulle imprese non quotate di Nedcommunityha incontrato per La Voce degli Indipendenti il professor Alessandro Minichilli, docente di corporate governance e family business dell’Università Bocconi, nella sua veste di promotore di tale codice, ma anche di componente il Reflection Group di Nedcommunity che ha pubblicato nel 2023 i Principi di Corporate Governance per le società non quotate.

In tale incontro si sono affrontati alcuni temi, essenziali nella promozione della cultura della governance dei soggetti non quotati, e dunque non soggetti a codici vincolanti, nel tentativo di dare evidenza della trasversalità di alcuni concetti di buona governance e della peculiarità di altri elementi, più propri delle aziende a carattere familiare.

RC. Caro Alessandro, Assonime, insieme a SDA Bocconi ed Università Bocconi, hanno di recente varato il nuovo Codice di autodisciplina per le imprese familiari. Nedcommunity, da sempre impegnata nella diffusione della buona governance, ha pubblicato a sua volta le Linee guida e i Principi di corporate governance applicabili alle società non quotate, ispirati ad un indirizzo europeo di ECODA. Nella qualità di esperto e contributore ad entrambi i documenti, ci potresti segnalare le differenze principali e gli elementi di attenzione da porre nel loro confronto?

AM. I due documenti hanno naturalmente molti punti in comune: segno evidente questo di come le best practice in termini di qualità della governance per imprese non quotate siano ormai anch’esse “mature” così come da tempo accade per le imprese quotate. Esistono tuttavia alcune differenze. Il Codice promosso da AIDAF, che rappresenta una profonda riedizione della prima versione del 2017, è molto declinato sul contesto delle imprese a controllo familiare. Questo ci ha permesso di insistere su alcuni temi come l’importanza di una buona progettazione della governance a livello familiare, che sia capace di guidare la transizione manageriale, che viene ancora realizzata molto parzialmente.

Inoltre, si e potuto insistere su temi quali la necessità di piani di successione chiari, sia nella famiglia che nel management, nonché introdurre alcune “provocazioni”, come quella della potenziale utilità in alcuni contesti del “sistema duale” (ndr: un sistema di governance previsto in Italia, usato soprattutto da alcune banche, caratterizzato dalla presenza di due diversi organi delle attività gestionali, diversi dal consiglio e dal collegio sindacale che invece caratterizzano il sistema tradizionale), l’utilità di considerare una crescente rappresentanza di stakeholder nel board (soprattutto, lavoratori), nonché di valutare una prassi di staggered board (ndr: una particolare configurazione del consiglio con cui è prevista ogni anno la nomina di alcuni amministratori, in genere un terzo, per avere un rinnovo dell’organo stesso graduale, mantenendo la continuità grazie alla presenza di soggetti che proseguono nell’incarico) per bilanciare continuità e rinnovamento del Consiglio.

Infine, per la prima volta si indica un numero minimo di cinque componenti del cda, con almeno due esterni, a prescindere dalle dimensioni.

Il Codice di Nedcommunity dal canto suo ha una forte radice europea, si rivolge a tutte le società non quotate anche non familiari, e va più in profondità su alcuni temi quali il sistema di controllo interno e gestione dei rischi, le politiche di remunerazione, la trasparenza informativa ed il collegato dialogo con gli stakeholders. Entrambi poi seguono un principio fondamentale della proporzionalità nell’applicazione delle diverse previsioni, che è sacrosanto nel promuovere la diffusione sostanzialmente – ad oggi – volontaria di molte di queste practice.

 RC. Mi verrebbe da dire che la governance ottimale debba essere frutto di ciò che è possibile estrarre da entrambi i documenti… Perché secondo te è importante una governance al passo con i tempi per le imprese non quotate e per quelle famigliari e come si può aumentare la sensibilità su questi temi?

AM. Sul perché la governance sia importante si è detto e scritto molto. Proverei ad indicare quattro ragioni fondamentali. La prima, perché diventa sempre più urgente avere coscienza, ma poi distinguere sapientemente le sfere di famiglia, patrimonio ed impresa. La crescita nel lungo termine della complessiva ricchezza familiare dipende proprio dalla capacità di dosare questi elementi.
La seconda, perché diventa essenziale un processo di managerializzazione vera: managerializzare non significa “assumere” manager, ma invece saperli delegare e controllare davvero. E qui solo un cda forte può fare la differenza.
La terza, perché la governance è sempre più bussola indispensabile nei passaggi generazionali, senza la quale errori, personalismi, distorsioni valutative sono purtroppo spesso, o sempre, in agguato.
E infine, perché siamo nell’epoca delle grandi trasformazioni, prima digitale, poi sostenibile, infine geopolitica e certamente ne verranno altre, per cui un uomo solo al comando non può più essere un modello di governo accettabile.
Il tema vero è come si può fare per aumentare la sensibilità: solo portando davvero sul tavolo di imprenditori esempi concreti di best practice, e al contrario di worst practice, che hanno rafforzato o indebolito le aziende, c’è una possibilità vera di confronto. E sono convinto che il motore nei prossimi anni per diffondere queste prassi saranno con forza le nuove generazioni.

 RC Mi sembra molto giusto, nulla può essere più efficace di una testimonianza concreta che dia evidenza di cosa una buona governance può portare, o al contrario far perdere, alla competitività di un’impresa. Nella tua esperienza, quali sono i punti di forza e di debolezza della governance delle aziende non quotate e di quelle famigliari e quali differenze vedi tra queste due categorie di soggetti?

Difficile rispondere sui punti di forza, perché questi non sono della governance, ma della proprietà familiare, che è resiliente, spesso visionaria, fondata su valori solidi e capace di rigenerare imprenditorialità quando sembrerebbe ormai spenta. La governance, invece, ha molte lacune, prima tra tutte la ancora scarsa diffusione di una vera apertura dei consigli e, ove questa avviene, di un vero contributo strategico del consiglio. Sono fortemente convinto che per incidere davvero un cda ben costruito possa e debba svolgere un ruolo strategico, se non addirittura – come dice il codice UK – un ruolo “imprenditoriale”. D’altronde, il passaggio generazionale è un passaggio “da uno a tanti”, perché è difficile se non impossibile replicare la visione imprenditoriale del fondatore o del predecessore. Altrimenti il rischio è che la visione resti sempre più concentrata in una sola persona, che sia l’imprenditore o anche l’AD esterno. In entrambi i casi si tratta di una situazione pericolosa: nessuna impresa può permettersi di dipendere da un solo uomo o una sola donna, a maggior ragione se non della proprietà. Per non parlare del fatto che ancora oggi il 40% delle PMI ed il 20% delle medie e grandi imprese è guidato da un amministratore unico: modello questo che non solo presenta i problemi appena detti, ma è naturalmente anche più carente dal punto di vista del controllo.
Per questo motivo, le future generazioni dovranno darsi da fare nel capire che devono prima di tutto disegnare una buona governance, e quindi fare i bravi azionisti, e poi pensare al resto.

 RC Sono certo che i passaggi generazionali avranno un’influenza determinante nel miglioramento della governance, perché la sensibilità delle nuove generazioni rappresenta un elemento essenziale nei processi di rinnovamento. Perché è importante il ruolo degli indipendenti e dei non esecutivi nella governance di tali imprese e come vedi possibile farlo in assenza di un organo collegiale?

 AM. Gli indipendenti, o quantomeno gli “esterni” (ossia non manage, non proprietari), sono fondamentali per muovere i primi passi nella governance. Solo separando il tavolo della proprietà da quello della gestione con un organo in cui siedono soggetti terzi è possibile iniziare a parlare di separazione di ruoli e bilanciamento di poteri. Svolto questo primo essenziale compito, nell’evoluzione del cda devono trovare sempre più spazio le competenze e la discussione dovrebbe spostarsi sul match tra le skill dei consiglieri selezionati ed i grandi progetti strategici delle imprese. Per questo motivo, come ripeto sempre, non esistono dei consiglieri esterni adatti ad ogni contesto e ad ogni fase strategica: al contrario, il consiglio deve essere oggetto di una attentissima progettazione e altrettanto attenta selezione di chi ne farà parte. In altri termini, bisogna abbandonare con decisione la logica del network, così come bisogna chiedere e pretendere dai consiglieri esterni che siedono nei board di non avere commistioni di ruoli come advisor della società, ponendoli in uno strutturale conflitto di interessi. Tutto questo, come evidente, richiede un ripensamento profondo del ruolo del consigliere esterno in società non quotate, ripensamento che è solo e solo in parte iniziato. Sul fatto che sia possibile muovere i primi passi in tema di governance in assenza di un organo collegiale, proprio il codice NED ha suggerito alle aziende più piccole di considerare per brevi periodi un advisory board. Credo sia uno strumento utile per chi proprio non se la sente di attivare un consiglio vero, ma da dosare con grande attenzione perché ha diversi limiti sia dal punto di vista giuridico che, soprattutto, della facile “reversibilità” del progetto.

RC Quali pensi debbano essere le soft skill che chi ambisce a sedere in un board di imprese familiari deve possedere?

 AM. Le soft skills di un buon consigliere esterno di imprese familiari sono tante e sempre più sofisticate. Anzitutto, occorre una forte indipendenza di pensiero e di giudizio, unita alla capacità di esprimere le proprie opinioni con rispetto e nei modi appropriati. Cosa non semplice, quando accanto a te siede l’azionista di riferimento, l’imprenditore, o anche una rappresentanza di proprietari. A ciò si aggiunge un forte senso di integrità e di stewardship, ovvero la capacità di agire nell’interesse di lungo periodo dell’impresa, condividendone i valori fondanti. Le competenze maturate e le esperienze pregresse devono essere accompagnate da eccellenti capacità relazionali, indispensabili per interagire con le diverse componenti – familiari e non – dell’azienda. Infine, un solido network relazionale rappresenta un valore aggiunto fondamentale perché ha un forte effetto moltiplicatore: ciascun consigliere ha un proprio network che si amplia partecipando a vari consigli, e dunque l’azienda può davvero aprirsi a mondi nuovi e distanti in breve tempo.

 RC. Trattasi di soft skill non banali, ma essenziali. La trasformazione in atto e la sensibilità delle nuove generazioni verso le tematiche ESG stanno contribuendo ad una accelerazione di alcuni processi. Pensi che la crescente attenzione dei soggetti di minor dimensione verso la sostenibilità, anche per il merito creditizio e l’appartenenza a filiere produttive, possa modificare/accelerare il loro percorso verso una buona governance?

 AM. La sostenibilità è stata un grande motore dell’interesse recente verso la governance. Indubbiamente, l’enfasi su tematiche ESG soprattutto nel durante e nell’immediato post-Covid hanno avuto il merito di rendere il tema molto attuale nell’agenda di tanti imprenditori. Purtroppo, la recente parziale frenata dell’unione europea, insieme ai danni creati dalla precedente accelerazione sul reporting – che, quindi, ha “derubricato” il tema sostenibilità da strategico a compliance, non hanno facilitato. Sono convinto però che ci sarà presto un nuovo equilibrio, in cui forse e probabilmente sarà proprio la governance ad aiutare a leggere nuovamente la sostenibilità in chiave strategica, come ho sempre pensato che è giusto che fosse.

Grazie, prof. Minichilli per il suo contributo. Credo entrambi possiamo concludere il nostro incontro con l’auspicio che, anche grazie a questi Principi, i temi di buona governance per tutti i soggetti non quotati abbiamo diffusione e attenzione sempre crescente.

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