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Le scelte multiple del capitalismo in crisi

Cominciamo con un indovinello a scelte multiple.

“La crisi è figlia del veleno inoculato nella società globale dalle disparità tra ricchi e poveri e dalla finanza speculativa. E’ stata una mentalità sbagliata, economicistica, ad avvelenare il mondo. E’ necessario ora che le disparità evidenti e inaccettabili siano ridotte e, possibilmente, eliminate. Per rispondere alla crisi è insostituibile il ruolo della politica”.

Chi ha pronunciato le frasi riportate sopra? Ecco cinque possibilità: 

(a) l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti 

(b) il cardinale Angelo Bagnasco 

(c) il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman 

(d) l’esperto di diritto societario e opinionista Guido Rossi 

(e) il no-global Luca Casarini.


La risposta giusta è la (b). Le frasi sono state pronunciate dal cardinale Bagnasco in una lezione tenuta presso la London School of Economics su invito della Italian Society. Ma azzeccare la risposta giusta è difficile perché tutte le alternative sono plausibili. In un recente dibattito televisivo, tra gli argomenti anti-finanza e anti-globalizzazione di Tremonti e quelli di Casarini sono emerse evidenti consonanze, più importanti dal punto di vista sostanziale rispetto ai motivi di dissenso. Per parte sua, Guido Rossi esprime idee anti-capitalistiche e anti-finanza ogni domenica ai lettori del Sole 24 Ore. Gli stessi temi tocca spesso Paul Krugman sul New York Times, con maggiore varietà di argomentazioni rispetto a Rossi anche se con l’ottica più ristretta dell’economista.


La verità è che – a torto o a ragione – c’è oggi un ampio consenso sul fatto che la ragione ultima della crisi del capitalismo sia da imputare al mercato e alla finanza globale. A queste considerazioni si aggiunge poi un corollario: la finanza globale non ha solo fatto precipitare l’economia mondiale in una grave crisi, ma ha anche avuto bisogno di interventi statali inusuali per ritornare a funzionare. Gli interventi relativi alla politica di bilancio hanno provocato l’esplosione dei debiti pubblici e quelli monetari per la creazione di liquidità hanno portato all’azzeramento dei tassi di policy e l’impiego sistematico di strumenti non convenzionali come il Quantitative Easing di Bernanke e il Long Term Refinancing di Draghi. A questo alcuni aggiungono anche che nemmeno nei paesi oggi beneficiari di processi di rapida crescita economica come i Bric le cose vanno molto bene. Secondo il redivivo pensiero neo-marxista i processi di urbanizzazione e di industrializzazione che hanno immiserito milioni di persone in megalopoli disumane come San Paolo, il Cairo, Città del Messico e Bombay fatalmente si estenderanno anche alle nazioni più avanzate. L’aumento dei costi delle materie prime, la crescente disoccupazione e l’austerità obbligata delle politiche di bilancio dei governi occidentali porterà presto la miseria anche agli abitanti di NewYork, Londra, Madrid e Praga.

L’insieme di queste considerazioni porta a concludere che il capitalismo è in crisi e che si dovrebbe cercare qualcosa di alternativo. Nessuno ha ancora soffiato via la polvere dalla parola socialismo. Ma non ci siamo lontani: al posto di socialismo oggi si parla di Decrescita. Di fronte alla mancanza di correlazione tra benessere economico e misure di felicità riscontrata nei paesi ricchi, la teoria della decrescita del francese Latouche – almeno nella sua versione più recente – non arriva ad auspicare un riduzione del Pil come mezzo per raggiungere la felicità – sarebbe paradossale o almeno un po’ snob in tempi di crisi – ma propone di aumentare il Pil in modo diverso. Secondo la teoria della decrescita, decrescere vuol dire dare più valore ai veri “beni” della vita (semplificando: la Green Economy) e non ai “mali” come ad esempio la produzione di armi e sostanze nocive alla salute che oggi sono invece (colpevolmente) contabilizzati con il segno “più” nel calcolo del Pil. Se tradotto in pratica politica, quello di Latouche non è affatto un auspicio naif, ma consiste di un’idea ben precisa: quella di adottare politiche che aumentino – evidentemente attraverso forme di domanda pubblica – i prezzi dei “beni” e riducano i prezzi dei “mali”. Si prefigura cioè un intervento dello Stato ancora più intrusivo nelle scelte individuali di quello che c’è oggi. Le idee di Latouche rappresentano un esempio di attuazione delle opinioni espresse dal cardinale Bagnasco. Insomma quella che viene oggi proposta con la Decrescita è la nuova Seconda Via riformulata alla luce dei fallimenti della vecchia Seconda Via.

Molte delle accuse del cardinale e degli altri opinionisti citati all’inizio hanno un fondamento empirico. Non si può negare che il capitalismo attuale sia pieno di storture e di ingiustizie che, essendo persistenti, si traducono in pratiche discriminatorie. Il problema è però la ricetta del cardinale, non la sua diagnosi dei problemi esistenti. Come si fa a rassegnarsi all’idea che, vista la crisi attuale, dobbiamo vedere aumentare ulteriormente il ruolo di uno Stato che tutto ha fatto fuorché ritirarsi dall’economia ai tempi della finanza globale rampante e che nei paesi occidentali continua a intermediare in un modo o nell’altro da metà a due terzi di tutto ciò che viene prodotto ogni anno in tutti i paesi occidentali?

C’è un altro modo di vedere le cose che porta a conclusioni e terapie differenti. Nella crisi non è il mercato concorrenziale ad avere fallito ma piuttosto lo sfruttamento dei meccanismi di mercato da parte di relativamente pochi detentori di conoscenze e tecnologie – le banche troppo grandi per fallire – che sono riuscite a prodursi una legislazione à la carte e sono state poi salvate con i soldi di tutti. E’ il monopolio, non la concorrenza ad averci sprofondato nella crisi attuale. E’ vero, la catastrofe è stata evitata dalla politica e dall’uso di politiche non convenzionali. Ma ora quelle politiche presentano il conto, in forma di debiti pubblici astronomici che saranno pagati dalle generazioni future. Dal cibo alle materie prime, da Grecia e Irlanda al Nord Africa: una lunga lista di disastri, più spesso causati dall’invadenza della politica nei mercati che dalla sua assenza. La politica sembra più una parte del problema che una sua soluzione.


Anche questa visione alternativa porta con sé implicazioni pratiche. Un punto di partenza per le cose da fare è proprio quello esposto dal premier Monti durante un incontro con la comunità finanziaria milanese: ”Dispiace andare contro la nozione elegante e piacevole di salotto buono ma pensiamo che in passato abbia qualche volta tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo”. Ecco, per rendere l’Italia un paese meno feudale non c’è alternativa ad abbattere gli steccati contro la libertà, imbracciando in modo più deciso le politiche che favoriscono la concorrenza, come (e meglio che) nel decreto Cresci-Italia. Sapendo che tutto ciò non basterà, a meno che l’Europa non esca dalla sua crisi. Ma anche su questa strada i passi da seguire sono già tracciati. Prima viene il Fiscal Compact, l’accordo che, sulla strada per gli Stati Uniti d’Europa, mutua dagli Usa il divieto per gli Stati nazionali di fare deficit se non per fronteggiare gravi recessioni. Con il Fiscal Compact arriverà il via libera dei tedeschi, così rassicurati, all’ampliamento del fondo salva-stati – un ingrediente importante della futura Europa federale. A seguire, ricordando che un’Europa che viva di salvataggi non sta in piedi, ci vorrà una direttiva Cresci-Europa che aiuti a completare il mercato unico, più con la regolamentazione dei requisiti di trasparenza e rischiosità dei derivati che con la Tobin Tax. Per poi completare l’Europa della politica economica con l’Europa dei cittadini, cioè con il ritorno in auge del metodo comunitario contro le liturgie dei vertici bi o trilaterali del passato e rifondando il suo funzionamento su regole più democratiche nelle quali si stabilisca una relazione più stretta tra le politiche attuate e le preferenze dei cittadini europei.


Insomma, malgrado gli insuccessi e il pessimismo oggi prevalente, è tutt’altro che scontato che la via di uscita dalla crisi debba passare per una drammatica fuoruscita dal capitalismo concorrenziale. 

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