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La Remunerazione è anche questione di trasparenza

Si diffondono sempre di più presìdi di governance con lo scopo di consentire al mercato di valutare le proprie scelte di investimento anche alla luce delle politiche di remunerazione adottate. La situazione in Italia e all’estero

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La remunerazione, per il mercato, è anche – o forse, soprattutto – una questione di trasparenza, che è stata interessata, negli ultimi anni, da un’evoluzione meritevole di attenzione, rispetto al 2010-13, periodo in cui è stato progressivamente introdotto nel nostro ordinamento il principio del c.d. “say on pay”.

Say on pay” significa “informa sui compensi”, ed è una locuzione che esprime, con un tono piuttosto assertivo, l’esigenza di conoscere ex ante ed ex post la remunerazione spettante, in particolare, ai CEO e a quei manager che, nelle loro mani, custodiscono il potere di tracciare il destino di una azienda.

Purtroppo, però, la sorte di molte società non è stata quella auspicata, e la crisi che si è abbattuta su diversi emittenti, molti dei quali sono stati travolti dalle turbolenze legate ai mutui subprime, manifestatesi dal 2006, ha messo gli investitori al cospetto dell’evidenza che, a fronte delle (spesso ingenti) perdite subite, i compensi dell’alta dirigenza rimanevano sproporzionati rispetto alla povertà dei risultati ottenuti.

Presidi di governance

Il dibattito e il malcontento sull’argomento hanno avuto una rilevanza, anche mediatica, a livello internazionale, e ne è scaturita su più fronti la volontà di introdurre presìdi di governance tali da consentire al mercato di valutare le proprie scelte di investimento anche alla luce delle politiche di remunerazione adottate e delle consuntivazioni dei compensi effettivamente erogati nell’anno precedente, e agli azionisti di esprimere la propria posizione al riguardo, in assemblea.

In Italia, il solco della trasparenza delle remunerazioni è stato segnato, in prima battuta dal Codice di Autodisciplina, il quale, nel 2010, è stato arricchito di una previsione che richiedeva, a fini informativi, di descrivere nella relazione sul governo societario l’impostazione della remunerazione nelle sue varie componenti (fissa, variabile, etc).

Il ruolo degli azionisti

Su stimolo comunitario, agli azionisti, è stato poi riservato un ruolo attivo sull’argomento, essendo stato introdotto il diritto a loro favore di esprimersi sulle politiche di remunerazione con voto inizialmente non vincolante, dal 2010, e poi vincolante, dalla stagione assembleare 2020.

Le raccomandazioni e le direttive sottostanti a tali novità normative sono state ispirate, in estrema sintesi, dalla volontà di approdare a un bilanciamento ponderato nei sistemi retributivi tale da preservare l’obiettivo di loro attrattività, incentivazione e retention, salvaguardando, al contempo, il principio di coerenza e di proporzionalità degli importi riconosciuti con i risultati effettivamente conseguiti dall’azienda.

Gli azionisti, quindi, ingaggiati e responsabilizzati, hanno cominciato a far sentire la propria voce in materia, e ad esprimere, ove non soddisfatti delle impostazioni sulla remunerazione adottate dalle società, voto negativo rispetto alle politiche di remunerazione sottoposte alle assemblee, e, talvolta anche sulla rendicontazione sui compensi del precedente esercizio, ancorché, nel secondo caso, il dissenso non abbia una efficacia vincolante.

Dall’analisi del voto assembleare degli ultimi anni, emerge, in particolare, come sia i proxy advisor che gli azionisti ritengano centrale, ai fini delle proprie determinazioni, la trasparenza e la chiarezza dell’impostazione adottata, ma anche la visione di breve, medio e lungo termine sottostante agli obiettivi dei management by objective (MBO) e dei long term incentive (LTI), esprimendo una linea di indirizzo piuttosto convergente sulla rilevanza attribuita all’integrazione di fattori di sostenibilità nei target di riferimento.

Disclosure centrale

La centralità della disclousure sui sistemi di compensation è, dunque, evoluta in una dimensione più olistica, posizionandosi stabilmente nella galassia composita dell’universo ESG, nella quale l’attivismo degli investitori istituzionali è volto non solo a scoraggiare soluzioni sui compensi che si traducono in effetti depauperativi, a scapito della società e dei suoi azionisti, ma anche a valorizzare nel tempo il potenziale di “successo sostenibile” dei propri investimenti.

I potenziali squilibri nei sistemi di remunerazione vengono comunemente censurati, soprattutto per quanto concerne la parte variabile, in quanto detta componente dovrebbe essere lo strumento principe per ottenere l’allineamento degli interessi del management rispetto a quelli del mercato.

Il punto dell’“interesse” è meritevole di essere indagato, in quanto il focus non è prevalentemente solo quello di mitigare il rischio di sperequazioni tra i risultati raggiunti e le remunerazioni erogate, ma anche quello di stimolare una serie di azioni utili a prevenire e a gestire adeguatamente situazioni di crisi.

Il mercato, infatti, ha acquisito una crescente consapevolezza sul fatto che gli obiettivi di rendimento di medio termine potrebbero essere compromessi laddove le società non adottino misure concrete per accogliere per tempo una serie di pressioni trasversali che esigono un repentino adeguamento a fattori di sostenibilità ambientale, sociale e di governance.

L’aspettativa è che tali pressioni non vengano intrepretate come sterili esigenze di conformità regolamentare, bensì come un’attiva individuazione degli ambiti in cui è necessario intervenire per salvaguardare la capacità di essere profittevoli, avendo riguardo ai rischi strategici e operativi in cui altrimenti si potrebbe incorrere, a seconda del settore di business di riferimento.

Obiettivi Esg

Vengono così apprezzate quelle politiche di remunerazione in cui il compenso non è decorrelato all’effettivo andamento della profittabilità dell’emittente, e che anche ancorano in modo chiaro alcune componenti della remunerazione variabile al raggiungimento, misurabile, di step predefiniti in termini ESG.

Non stupisce, in quest’ottica, il favore diffuso che è stato osservato nei confronti dei sistemi di remunerazione coerenti, in termini di obiettivi, ai milestone fissati nei piani industriali, quanto agli LTI, e ai budget, quanto agli MBO, sul presupposto che essi includano anche progettualità volte, in concreto, a integrare la sostenibilità nella strategia aziendale. Mi riferisco, a esempio, a investimenti in digitalizzazione, nella riduzione dei rischi climatici e ambientali, nella formazione, nella divulgazione di un clima lavorativo sereno e stimolante, scevro da discriminazioni basate su pregiudizi connessi alle diversità, nel rafforzamento dei sistemi dei controlli, e alla sterilizzazione dei conflitti di interesse.

Il ruolo del Codice di corporate governance

Si tratta di un’evoluzione di approccio di non poco conto, che è stata stimolata, in Italia, anche dai princìpi espressi nel 2020 nel codice di corporate governance, che pone tra gli obiettivi prioritari che dovrebbe indirizzare la mission degli organi di amministrazione il “successo sostenibile”, che “si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”.

Il Codice raccomanda anche un impegno al dialogo con una platea di portatori di interessi più ampia rispetto ai soli partecipanti al capitale, e pone l’accento sulla centralità del ruolo degli amministratori indipendenti nel perseguimento delle buone prassi a fondamento del “successo sostenibile”.

La remunerazione, in tale contesto, gioca – insieme ai comitati endoconsiliari investiti della materia – un ruolo importante: il Codice raccomanda di individuare nella politica obiettivi di performance predeterminati, oggettivamente verificabili e collegati alla creazione di valore per gli azionisti nel medio-lungo termine, e, quanto agli esecutivi, che la loro retribuzione sia legata per una “parte significativa […] al raggiungimento di specifici obiettivi di performance, anche di natura non economica”.

Nella “Relazione 2021 sull’evoluzione della corporate governance delle società quotate”, pubblicata dal Comitato italiano corporate governance, si legge che “quasi tutte le politiche fanno riferimento almeno a un indicatore di matrice contabile, mentre oltre la metà delle società collega l’erogazione e l’entità della remunerazione variabile anche al raggiungimento di obiettivi “di business” quali, ad esempio, il raggiungimento di specifici obiettivi strategici, operazioni straordinarie, di crescita, di sviluppo internazionale, ma anche legati alla sostenibilità, alla custumer satisfaction o al contenimento dei rischi reputazionali o legali (65% dei casi); la previsione di questi ultimi è sostanzialmente stabile nel triennio mentre segna comunque un miglioramento rispetto agli anni precedenti”.

Dalla Relazione emerge anche che il 60% delle società censite nel 2020 lega espressamente una parte della remunerazione variabile a obiettivi di natura non finanziaria (aspetto più diffuso tra le società grandi, rispetto a quelle piccole). Tuttavia, la trasparenza, al riguardo, è piuttosto disomogenea, in quanto, pur essendo stato constatato un miglioramento, prevalgono ancora previsioni di obiettivi ESG generici, e, quindi, difficilmente verificabili in sede di consuntivazione.

Torniamo così alla considerazione iniziale: la remunerazione è anche un tema di trasparenza, come dimostra il fatto che, nella campagna assembleare 2022 sono state respinte diverse politiche ritenute non adeguatamente chiare ed esplicite sugli obiettivi di medio e lungo termine ai quali sono connesse le componenti di remunerazione variabile.

Sul punto si osserva, in ogni caso, un deciso miglioramento, rilevato anche nel Rapporto finale (edizione 2022) pubblicato dall’Osservatorio Ambrosetti corporate governance.

Cosa succede all’estero

Allargando lo sguardo ad una prospettiva più internazionale, si nota come la disclosure in materia di remuneration e l’inclusione degli obiettivi ESG nella strategia aziendale, in un’ottica, tra l’altro, di perseguimento del successo sostenibile, siano temi cari anche all’estero, a esempio, in UK e negli USA.

Nel Regno Unito, il raggiungimento da parte degli esecutivi di target parametrati alla sostenibilità viene ritenuto, infatti, un imprescindibile presupposto al quale collegare l’erogazione di almeno una quota della remunerazione variabile. Secondo uno studio condotto da Willis Towers Watson, nel 2022, l’89% (in aumento rispetto all’81% registrato nel 2021) dei piani di remunerazione dei vertici aziendali inglesi prevede l’utilizzo di metriche ESG per la definizione dei target cui ancorare la maturazione della retribuzione variabile, di breve o di lungo periodo. Inoltre, negli ultimi anni, è in crescita anche la disclosure delle remunerazioni riconosciute ai vertici aziendali. Dal 2019, per altro, le società inglesi quotate con più di 250 dipendenti forniscono disclosure anche del pay ratio tra la remunerazione del CEO e del resto degli impiegati.

Infine, anche negli USA sempre più società legano la remunerazione del CEO a obiettivi ESG, in particolare relativi a temi di diversità, equità ed inclusione, senza trascurare i temi relativi all’impatto ambientale. Tali scelte sono spesso animate dall’intento degli emittenti di rendere note ai propri stakeholder la priorità attribuita alla sostenibilità nelle proprie politiche aziendali e dalla volontà di rendicontare i traguardi conseguiti rispetto a quelli annunciati. La normativa di riferimento prevede che di tali obiettivi debba essere data disclosure al mercato, con indicazione della quota di remunerazione dei CEO ad essi associata, e del metodo con cui viene calcolata, al pari degli altri target.

Posto, quindi, che l’Italia parrebbe aver intrapreso, anche rispetto ad altri Paesi, un percorso virtuoso, ancorché migliorabile, sulla trasparenza delle politiche di remunerazioni, forse, ad oggi, il motto non dovrebbe più essere “say on pay”, ma “say on pay, and on the goals beneath your pay”, esprimendo così una visione che non evoca il timore di sperequazioni in tempi di crisi, ma una più ottimistica aspettativa di successo nel medio e lungo termine.

Nota: grazie ad Annalisa Rodi di Starclex per il supporto negli approfondimenti sottostanti al contributo editoriale.

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