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La governance disruptive? Si trova in Italia

Quando si parla di governo d'impresa il nostro Paese ha molto da dire abbattendo lo stereotipo che lo vede sempre "fanalino di coda". Il punto di vista di Alessandra Stabilini

Siamo abituati a pensare all’Italia come a un Paese condannato a inseguire gli altri in ogni ambito, dalla scienza agli sviluppi tecnologici, passando per gli schemi normativi e la gestione di organizzazioni complesse. In questo modo, infatti, viene spesso descritto, non soltanto all’estero, ma anche se non soprattutto in patria. Eppure, ecco la sorpresa: quando si affronta il tema della corporate governance il racconto, ormai dato per immodificabile, di un’Italia “fanalino di coda” può essere riscritto.

Ne è convinta Alessandra Stabilini, ex vicepresidente di Nedcommunity e già membro del consiglio direttivo di ecoDa, la confederazione europea delle principali associazioni dei board members. Dall’alto della sua esperienza, anche internazionale, Stabilini non ha dubbi: “Se mi permette una provocazione, ma non troppo, alla domanda ‘quale ordinamento ha adottato un approccio disruptive in materia di regole di governance’, risponderei proprio l’Italia”.

Da dove nasce questa valutazione?

“È un fatto che il nostro Paese abbia compiuto, negli ultimi decenni, grandi passi avanti nell’adozione di un sistema di regole di governance adeguato e moderno, e mi sento di poter dire con convinzione che il nostro sistema di regole può essere considerato certamente al passo con quello dei principali ordinamenti avanzati. Naturalmente questo è anche, ma non solo, frutto delle regole europee, che molto hanno fatto in questa direzione”.

Per quale motivo la governance italiana sarebbe disruptive?

“Di motivi me ne vengono in mente almeno due. Il primo è quello delle norme sull’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione, su cui il nostro Paese, con l’adozione della legge Golfo-Mosca nell’ormai lontano 2011, è stata, rispetto al quadro dell’Unione Europea, decisamente tra i pionieri, con risultati che oggi ci portano in vetta alle classifiche come numero di consiglieri donne nei board delle società quotate. Delle cosiddette quote rosa si possono avere opinioni diverse – noi donne tendiamo a non amarle molto, e comprensibilmente – ma resta il fatto che hanno portato ad una vera disruption in termini di liberazione di talenti professionali e manageriali e di evoluzione dei sistemi di governo delle grandi imprese (oltre che in termini di giustizia, e non è poco)”.

E il secondo?

“Il secondo è quello del voto di lista e della rappresentanza obbligatoria delle minoranze azionarie nei consigli di amministrazione. Anche in questo caso, si tratta quasi di un unicum a livello non solo europeo ma internazionale, al quale le stesse istituzioni europee hanno guardato con molta attenzione (per chiarire: il punto rilevante non è che le minoranze siano rappresentate in consiglio, ma che lo siano per legge nelle quotate). È anche questa una soluzione normativa discussa e non priva di aspetti delicati, data la necessità di preservare l’importantissimo principio per cui tutti gli amministratori devono agire per il perseguimento dell’interesse dell’intera comunità degli azionisti, indipendentemente dalla lista da cui sono stati tratti. Ma è un fatto che si tratta di un istituto di governance di grande interesse e che ha portato, grazie anche al ruolo svolto dagli operatori del risparmio gestito, competenze e visioni che hanno certamente arricchito e rafforzato il ruolo dei consigli di amministrazione delle grandi società”.

Possiamo dire quindi che l’Italia ha fatto scuola. Secondo lei qual è la nuova frontiera di un approccio disruptive che ancora è lontano dall’essere adottato?

“Oggi abbiamo di fronte sfide importantissime, per certi versi cruciali non solo per il governo societario ma per il sistema economico generale e per il ruolo delle imprese nell’ambito dello stesso. Prima fra tutte, la sfida della sostenibilità, che è oggi tra i primi – se non proprio il primo – posti nell’agenda dei board, oltre che dei policy makers”.

Se volesse individuare dei limiti oggettivi quali indicherebbe?

“Non mi nascondo che, pure in un quadro di regole che come ho detto reputo avanzato, la pratica della governance soffre di limiti dovuti in parte a problemi del sistema italiano che ci portiano dietro da tempo. Molte regole di governance sono basate su una logica di mercato, che lavora sulla creazione di incentivi e di strumenti dati agli attori del mercato per tutelare i propri interessi nei confronti degli altri interlocutori dell’arena. E che punta moltissimo sulla sanzione reputazionale, che è per natura strettamente dipendente dall’esistenza di un contesto concorrenziale. Gli incentivi di mercato però faticano a funzionare se il mercato azionario non ha dimensioni sufficienti, se il numero delle società quotate non è sufficientemente elevato, se il numero di società quotate contendibili resta molto ridotto (sia detto per inciso, si può discutere se la contendibilità sia un valore in sé, ma certamente crea potenti incentivi di mercato anche in materia di governance). Questi sono problemi che in buona (forse grande) parte non dipendono dalle regole di governance, ma da limiti anche strutturali del Paese che richiederebbero interventi di ampio respiro. Anche su questo – ad esempio, sul quadro normativo delle regole di listing – i lavori sono in corso sia a livello nazionale, sia soprattutto in ambito UE”.

Un consiglio finale su come essere disruptive?

“Per quello che riguarda l’ambito specifico della governance, posso dire che quello di cui sicuramente abbiamo bisogno sono board forti, competenti, ricchi di diversità (e non solo di genere), composti da persone consapevoli del loro ruolo e delle responsabilità che esso comporta. Nedcommunity, lo dico con orgoglio, fa di questo uno dei suoi obiettivi strategici da sempre”.

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