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Informativa non finanziaria: le imprese italiane sono già compliant?

Nell’ambito del percorso verso un’economia globale sostenibile dove redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell'ambiente ispirino le azioni e le strategie aziendali, il Parlamento europeo ha emesso la direttiva 2014/95/UE.

  

di Simona Cosma (*) e Andrea Venturelli (**)

La portata innovativa della Direttiva UE sulle informazioni “non financial”

Nell’ambito del percorso verso un’economia globale sostenibile dove redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente ispirino le azioni e le strategie aziendali, il Parlamento europeo ha emesso la direttiva 2014/95/UE.
La direttiva, rivolta alle imprese di grandi dimensioni e, precisamente, agli enti di interesse pubblico (EIP) con più di 500 dipendenti, introduce l’obbligo di comunicare agli stakeholders informazioni sulla sostenibilità dirette a mettere in luce gli impatti ambientali e sociali del business, nonché i rischi per la sostenibilità generati da ciascuna impresa. La comunicazione di tali fattori e rischi dovrebbe consentire un maggior controllo dei risultati delle imprese e del relativo impatto sulla società civile. Flessibilità dei contenuti, comparabilità delle informazioni e un facile accesso per gli stakeholders all’informativa “non financial” sono le caratteristiche che contraddistinguono la richiesta dei regulators.
Tra gli effetti attesi della direttiva europea, figura il contrasto di fenomeni come il “greenwashing” e la tendenza delle imprese a considerare, all’interno dei propri reports, attività in corso di implementazione ed a rendicontare, quindi, risultati spesso solo presunti, in grado di alterare le condizioni del mercato e le preferenze dei consumatori. In Italia, il d.lgs 254/16 ha recepito la direttiva, discostandosi unicamente per il perimetro d’informativa, la previsione di un meccanismo sanzionatorio e la possibilità di un’adesione volontaria “certificata” da parte degli Enti che non rientrano nel perimetro di applicazione.

Il contributo effettivo e la portata innovativa della Direttiva sono stati oggetto di un ampio dibattito europeo, visto che la stessa si inserisce in un contesto economico in cui le imprese di grandi dimensioni già rendicontano da tempo, volontariamente, informazioni non finanziarie aventi ad oggetto temi di CSR.

I risultati della ricerca sul gap informativo da colmare per le imprese italiane

Alla luce delle considerazioni precedenti, esiste un gap informativo rilevante che le grandi imprese devono colmare? La direttiva ratifica buone prassi già esistenti o supporta effettivamente una valutazione più ampia degli EIP da parte degli stakeholders arricchendo il quadro delle informazioni non finanziarie da fornire? La regolamentazione da un contributo effettivo al perseguimento della CSR?
Queste domande sono alla base di una ricerca (Venturelli et al., 2017) che ha indagato l’informativa non finanziaria contenuta nei bilanci di esercizio e consolidati, nei bilanci di sostenibilità e nei reports integrati degli EIP (Enti di interesse Pubblico) che, alla data del 31/12/2015, presentavano un numero di dipendenti superiore a 500 unità. Il campione si compone di 223 aziende, prevalentemente quotate e operanti nei settori non finanziari. Banche e società assicurative rappresentano il 24% del totale. Le imprese multinazionali, complessivamente pari a 34, sono tutte appartenenti a settori non finanziari.
L’analisi ha utilizzato delle griglie valutative volte a rilevare l’aderenza informativa (percentuale di compliance) dei documenti suddetti rispetto ai contenuti della norma. Le 5 griglie di analisi hanno mirato a valutare la presenza di informazioni specifiche relative ai seguenti ambiti: business model, politiche e procedure in tema sostenibilità, rischi di sostenibilità, KPIs (indicatori di prestazione) e diversità. Per ciascuna azienda, in termini complessivi e per specifici ambiti di informativa, è stato calcolato un Non Financial Information (NFI) Score che va dallo 0% al 100%.
Vi è un gap informativo da colmare per le imprese italiane?
La risposta è positiva e, a dispetto delle aspettative legate al dibattito europeo, l’entità del gap non è irrilevante. Mediamente le imprese sono compliant al 49%, ne deriva, quindi, che le imprese italiane possono ritenersi a metà del percorso di adempimento della normativa. In nessun caso il NFI score è pari a 0, visto l’obbligo posto dal codice civile di inserire informazioni sull’ambiente e sul personale interno nella relazione di gestione.
Tra gli ambiti indagati, l’informativa più completa riguarda il business model (65%) e, in seconda battuta la policy di sostenibilità (52%). Sorprende in senso negativo che circa il 60% delle imprese del campione non abbia un sistema di management control su aspetti legati alla sostenibilità e che i rischi ambientali e sociali non siano ritenuti strategici nelle comunicazioni verso gli stakeholders (il NFI score relativo ai KPI e ai rischi è, infatti, rispettivamente del 43.7% e 44.4%). La scarsa qualità informativa in tema di diversity è legata, invece, ad una governance che, nel 2015, sembra ancora poco aperta ai temi della diversità, soprattutto se messa a confronto con altri Paesi. Tale risultato è evidentemente destinato a crescere alla luce della regolamentazione introdotta in Italia sul tema della diversity nei CDA.
Il gap informativo da colmare è maggiore per il settore “non financial”, che vanta una tradizione più forte nella rendicontazione delle informazioni non finanziarie o per il settore “financial”, che tradizionalmente è stato considerato meno sensitive a causa dell’assenza di impatti diretti sull’ambiente?
I due settori, “non financial” e “financial”, evidenziano un NFI score complessivo simile (rispettivamente 50% e 48%) ma su tre ambiti informativi (rischi, KPI e diversity), le migliori performance sono esibite dal settore “financial”, dove la regolamentazione è più stringente e la cultura del rischio è più diffusa. Sui due restanti ambiti, business model e policy, il settore “non financial” si differenzia positivamente in modo importante dal settore finanziario.
In particolare, il settore petrolifero si conferma il più virtuoso in termini di disclosure, sia in termini complessivi (68%) che con riferimento ai 5 ambiti di analisi, mentre il settore chimico si assesta su un dato medio del 25%, determinato principalmente dalle scarse performance sugli ambiti KPIs e diversity.

Figura 1: confronto tra i report dei settori non financial e financial

Il gap da colmare è maggiore per gli EIP che redigono bilanci obbligatori o volontari?
I risultati statistici non danno adito a dubbi: il confronto tra l’informativa fornita dai bilanci obbligatori (109) e volontari (114) dimostra la superiorità della comunicazione in tema di CSR in questi ultimi (rispettivamente un NFI score del 21% e del 76%). Il rispetto di standard di rendicontazione specifici rappresenta un forte elemento discriminatorio e determinante per la qualità della disclosure, nel complesso come in tutti i cinque ambiti indagati.

Figura 2: confronto tra bilanci obbligatori e volontari

L’attività di asseverazione da parte di un soggetto terzo indipendente favorisce la qualità/completezza della non financial disclosure? In altre parole, il gap informativo da colmare è minore in presenza di reports asseverati?
La risposta è positiva: a conferma di quanto sostenuto dalla letteratura nel tempo, il confronto tra reports asseverati e non, evidenzia uno scostamento significativo tra i NFI score a favore dei primi, tranne per l’ambito che concerne i rischi. I risultati concordano con la letteratura che riconosce notevole valore al ricorso a procedure di asseverazione della reportistica di sostenibilità. (Hay and Davis, 2004; Moroney et al., 2012, Bagnoli, 2016).

Figura 3: confronto tra report asseverati e non asseverati

Infine, il gap da colmare è maggiore per le imprese italiane o per le multinazionali quotate su due listini (quello del Paese di origine e quello di Borsa Valori)?
La dimensione e il fattore Paese, come parte della letteratura ha già evidenziato, giocano un ruolo significativo nella qualità della disclosure non financial: il NFI score ascrivibile alle multinazionali è notevolmente più elevato di quello delle imprese italiane (75% vs 44%). Tale divario riguarda tutti gli ambiti dell’informativa evidenziando grande attenzione per la comunicazione da parte delle multinazionali.

Figura 4: confronto tra imprese italiane e multinazionali

Un’analisi di regressione ha poi tentato di cogliere la relazione tra la performance in termini di informativa non finanziaria, misurata attraverso lo NFI score e alcuni fattori. I risultati confermano che la dimensione misurata attraverso il numero di impiegati e la presenza di asseverazione (assurance) hanno una relazione positiva significativa con la qualità dell’informativa non finanziaria. Non appaiono significativi, invece, gli anni di esperienza nell’ESG reporting e la presenza di un bilancio obbligatorio o volontario.


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