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Gli azionisti di minoranza di fronte alla sentenza Mediaset

Non serve un’analisi quantitativa dei media italiani per sostenere che la cosiddetta “sentenza Mediaset” pronunciata dalla Corte di Cassazione il primo agosto scorso, e che ha condannato a quattro anni di reclusione Silvio Berlusconi per frode fiscale, sia stata soprattutto analizzata sotto il profilo dei suoi effetti politici, mentre altri aspetti di assoluta importanza sono stati sostanzialmente trascurati. In questo pezzo mi voglio occupare di uno di questi aspetti, ovvero delle lezioni di corporate governance che si possono trarre dalla sentenza stessa, con particolare riferimento al tema della tutela degli azionisti di minoranza di una società quotata 1.


Dal punto di vista del merito l’accusa di frode fiscale nei confronti di Berlusconi e degli altri imputati riguarda la pratica dell’acquisto dei diritti televisivi relativi a film di provenienza statunitense da parte di Mediaset, acquisto che veniva posto in essere in maniera intermediata, cioè non comprando direttamente dalle case produttrici e di distribuzione negli USA ma attraverso altre società che compravano dalle majors per poi rivendere gli stessi diritti a Mediaset ad un prezzo largamente maggiorato. La Corte di Cassazione ha ritenuto che Silvio Berlusconi, pur essendo impegnato nella sua carriera politica, restava l’ideatore e il beneficiario di tali società interposte nello scambio tra le case produttrici e Mediaset, con il fine doloso di evadere le imposte in Italia. A parte il tema in sé dell’evasione fiscale, la Corte ha ritenuto che Berlusconi, in quanto tuttora dominus di Mediaset dal punto di vista azionario e del carisma del fondatore, fosse consapevole di un sistema che trasferiva profitti da una società (Mediaset) non interamente controllata da lui o dalla sua famiglia verso altre società di cui è il pieno beneficiario, e che inoltre si avvantaggiano di un carico fiscale minore. Il termine anglosassone per questo tipo di comportamenti ha un’efficacia espressiva forte: si parla di “tunnelling”, cioè dell’atto (metaforico) di costruire un tunnel dentro un’azienda per spostare risorse altrove, a vantaggio del socio di maggioranza.


Il termine tunnelling è stato diffuso a livello di discussione pubblica dagli economisti Johnson, Boone, Breach e Friedman in un articolo del 2000, e poi ripreso in un pezzo dal titolo omonimo dallo stesso Johnson, e dai suoi coautori La Porta, Florencio Lopez-de-Silanes e Andrei Shleifer. In questo secondo articolo gli autori discutono della maggiore facilità o difficoltà con cui gli azionisti di minoranza nei diversi ordinamenti possono chiamare in giudizio gli azionisti di maggioranza per i danni causati da pratiche di tunnelling: l’idea è che nei paesi basati su un sistema di common law è più facile che comportamenti di tunnelling siano ritenuti “ingiusti” (unfair) e dunque sanzionati per la presenza stessa di un conflitto di interessi in capo ad un’azionista di maggioranza di una data società X, il quale fa effettuare a questa società transazioni di vario tipo con società di cui è azionista totalitario (cosiddetta rule of loyalty). Al contrario, nei sistemi di civil law tali comportamenti possono tipicamente essere sanzionati soltanto attraverso la verifica di un comportamento doloso da parte degli organi di amministrazione della società X, i quali mostrano di avere disatteso il mandato sociale (cosiddetta rule of care).

La testimonianza di Tatò 
Tornando alla sentenza Mediaset, è importante ricordare come Franco Tatò, amministratore delegato di Fininvest negli anni faticosi antecedenti alla quotazione in borsa di Mediaset, abbia dichiarato durante il processo di non essere mai stato (abbastanza) informato a proposito dell’area aziendale relativa all’acquisto dei diritti televisivi, area di cui si occupavano direttamente Berlusconi e il defunto Carlo Bernasconi. Non è necessario essere esperti di management strategico per convincersi del fatto che il prezzo di acquisto dei diritti televisivi è una questione di importanza cruciale per una società come Fininvest/Mediaset, a motivo della sua rilevanza nella struttura dei costi complessivi. Per questa ragione, stupisce il fatto che l’amministratore delegato di un’azienda come Fininvest, tra l’altro chiamato lì esattamente con il fine di migliorare una situazione finanziaria difficile, non abbia le deleghe necessarie per agire dal lato dei diritti televisivi e dunque ottenere prezzi più vantaggiosi. La tentazione è quella di applicare al caso in questione la massima andreottiana sul pensar male: perché mai Silvio Berlusconi non ha delegato ad un amministratore rigoroso e notoriamente duro come Tatò la minimizzazione di questa parte importante dei costi aziendali?


La prevalenza del tunneling 
Nel caso della sentenza Mediaset, chi ama praticare il wishful thinking (cioè l’arte consolatoria di confondere ciò che si desidera con la realtà effettuale che si osserva) potrebbe rapidamente giungere alla conclusione che Silvio Berlusconi è l’unico imprenditore italiano che pratica la frode fiscale e il tunnelling. A quanto mi consta, non esistono studi empirici specifici sull’importanza quantitativa del tunnelling nel contesto italiano: come in ogni fenomeno economico-sociale passibile di sanzioni civili, penali e di eventuale stigma sociale, un sondaggio in cui venga chiesto direttamente agli azionisti di maggioranza di un campione rappresentativo di società di rivelare i propri comportamenti in fatto di tunnelling otterrebbe molto probabilmente risposte largamente falsate dalla volontà di non confessare alcunché, anche se in modo anonimo. Il trucco utilizzato nei sondaggi a proposito di comportamenti eticamente negativi come la corruzione e l’evasione fiscale consiste invece nel formulare domande indirette, cioè non sul comportamento dell’intervistato stesso, ma su quanto l’intervistato sa del settore in cui si colloca la propria azienda: in questo modo è più facile ottenere risposte più veritiere. Ecco la ricerca da farsi: questo tipo di domande indirette condotte su un campione di imprese medio-grandi nei diversi paesi sviluppati potrebbe permettere di verificare la propensione media ad effettuare tunnelling nei diversi paesi e nei diversi settori.


In assenza di questo tipo di informazione sistematica, una testimonianza indiretta della probabile non irrilevanza del tunnelling nel caso italiano è data dal relativo silenzio di un sindacato di categoria come Confindustria, che – a quanto mi risulta – non ha elevato una vibrante protesta a proposito della lesione dei diritti degli azionisti di minoranza nel caso in questione. Mentre non stupisce il fatto che Confindustria si lamenti con buona frequenza della pressione fiscale eccessiva, il lato di me che pratica il wishful thinking vedrebbe con piacere il sindacato di categoria degli imprenditori italiani lamentare con altrettanta forza i danni che il tunnelling causa allo sviluppo finanziario delle imprese italiane. In un contesto caratterizzato da imprese troppo piccole rispetto alla competizione internazionale, tutto ciò che spaventa o rende sospettosi i potenziali azionisti di minoranza delle nostre imprese, oppure gli acquirenti di obbligazioni, non fa altro che diminuire la voglia di investire capitali di rischio e di debito in queste stesse imprese, con conseguenze negative sul costo del capitale e sul raggiungimento delle dimensioni produttive ottime. Non esattamente quello di cui abbiamo bisogno. 


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Note

1. Riferimenti bibliografici 
Johnson, S., Boone, P., Breach, A., & Friedman, E. (2000). Corporate governance in the 
Asian financial crisis. Journal of financial Economics, 58(1), 141-186. 

Johnson, S., Porta, R. L., Lopez-de-Silanes, F., & Shleifer, A. (2000).Tunnelling. NBER Working Paper w7523. 
Puglisi, R. (2013) Corporate governance della sentenza Mediaset. Lavoce.info, 1/8/2013, disponibile qui: http://www.lavoce.info/conseguenze-economiche-della-sentenza-mediaset/


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