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Donne in pista

E’ solo dal 12 agosto che la legge Golfo-Mosca imponeva di riservare alle donne almeno un quinto dei posti nei consigli e nei collegi in scadenza. Eppure la Consob ci informa che al 22 agosto le donne in consiglio erano già al 10,6% e quelle nei collegi sindacali all’8,9%. Evidentemente molte aziende i cui consigli scadevano nel 2012 hanno pensato di adeguarsi anche in anticipo e questo è un buon segno. 
La Juventus, che ad ottobre, alla scadenza, dovrà indicare due donne per il consiglio e due per il collegio, ha già provveduto, in qualche modo, ad adeguarsi adottando una maglia rosa per la squadra, quando non indossa quella classica bianconera. Intanto in Italia è stata approvata la spending review, la cui prima fase prevede, se le misure verranno approvate entro novembre, che entro il 31 dicembre di quest’anno le «quote rosa» dovranno essere introdotte in tutte le società controllate dalla pubblica amministrazione, nonché nelle posizioni di vertice delle strutture burocratiche. 
Se pensiamo che nei maggiori gruppi europei monitorati da Egon Zehnder la media è di 15,6% di donne in consiglio, non siamo più molto distanti dalle medie europee. Guardando le quali, pero’, Viviane Reding, commissaria europea alla giustizia, ai diritti fondamentali e alla cittadinanza, ha concluso che ci vuole una direttiva che imponga ai 27 paesi dell’Unione una presenza femminile obbligatoria del 40% ai vertici delle società quotate e delle società pubbliche, come a suo tempo fatto per legge in Norvegia. Infatti la Norvegia è l’unica a veleggiare poco al di sotto di questa cifra, seguita, ma a una certa distanza, da Finlandia e Svezia. Anche qui si è creata un’Europa del Nord, cui peró non appartengono né la Germania né la Gran Bretagna, dove anzi è scoppiata la polemica ed è partita la controffensiva. Gli anglosassoni in particolare dicono che si mettono in gioco i principi liberali, in base ai quali contano solo il merito e il valore della persona, maschio o femmina che sia, come del resto pensa Fiorella Kostoris, economista italiana e membro dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca. Ma la Reding obietta che lasciando al mercato la scelta degli amministratori, come è accaduto da sempre, ci vorrebbero 40 anni per raggiungere un significativo equilibrio di genere. Peró, obiettano gli inglesi, come si vede in Norvegia, i cambiamenti sono solo apparenti, si tratta di window dressing, ornamenti da vetrina: le donne scalano la piramide ma vengono poi escluse dai processi decisionali che contano. 
Questo ormai sembra essere il punto: avviato l’accesso delle donne ai consigli e ai collegi, si tratta di capire come svolgono il loro ruolo. 
Si potrebbe dire: avete voluto la bicicletta, adesso pedalate! 
Sarei per ora scettico sui primi dati che cominciano a circolare, ad esempio dall’associazione «Valore D», col supporto di McKinsey, secondo cui in Italia le società quotate con donne in consiglio hanno registrato un indice di redditività superiore del 21% rispetto alle altre, fra il 2004 e il 2008. Attenzione al principio di causalità: magari in quelle società ci sono amministratori maschi particolarmente capaci, tanto da mettere delle donne in consiglio ben prima della legge Golfo-Mosca. Se si nota un aumento del consumo di dentifrici e di lozioni contro la caduta dei capelli, non è detto che più si strofinano i denti più si rischia di restar calvi. 
E’ adesso che si tratta di monitorare il comportamento delle donne in consiglio: vedere come votano sulle parti correlate, come avvertono la presenza di conflitti di interesse conferendo contratti ad aziende esterne. 
Per quelle di loro che assumono il ruolo di indipendenti, può essere una buona traccia il decalogo di Severino Salvemini pubblicato in apertura di questo stesso numero della Voce degli Indipendenti. 

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