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Divario tra top management e dipendente medio

Si è molto dibattuto in questi mesi sul divario fra lo stipendio del top management e quello del dipendente medio. Naturalmente è facile polemizzare su rapporti dell’ordine di 136, come nel caso di Lloyd Blankfein di Goldman Sachs (pur dopo i tagli del 2010) o anche più alti. In una trasmissione televisiva (L’infedele su La7) Gad Lerner ha addirittura sostenuto che Marchionne ha un rapporto di 435 rispetto all’operaio di Pomigliano, uno dei tre sospesi per sabotaggio alle linee di montaggio: il conduttore tuttavia ha preso l’emolumento lordo di Marchionne e quello netto dell’operaio. Se avesse fatto i calcoli come si deve avrebbe trovato un rapporto di circa 160 con l’operaio di Pomigliano e di circa 133 col dipendente medio della Fiat, qualcosa di molto simile al rapporto di Blankfein: ma è facile agitare le folle televisive con cifre iperboliche. Secondo queste posizioni di critica estrema, il rapporto non dovrebbe superare 10 o 20, per ragioni di equità sociale. 
Tuttavia se prendiamo l’Outlook 2010 di Hay Group, che prende in esame 466 aziende di vari paesi, il divario retributivo fra CEO e impiegato medio-basso (Clerical Class 12 secondo Hay) è nel 2010 di 45 in Italia, inferiore a quello di Francia, Spagna e UK. E nella retribuzione del CEO è compresa la parte fissa: si tratta della cosiddetta retribuzione diretta annua che comprende anche gli incentivi di lungo termine. 
Credo che qui ci si debba intendere: intanto nessun dipendente o manager ha di norma la responsabilità di varie diecine di migliaia di lavoratori, come è il caso di Marchionne o Bernabè, o di varie centinaia di migliaia di risparmiatori, come è il caso di Passera, di Profumo o di chi ha preso il suo posto. Ma c’è di più: è dai tempi di Berle e Means (“The Modern Corporation and Private Property”, 1932), due grandi studiosi americani di management, che il top management ha di fatto sostituito, nelle grandi società, l’imprenditore. E’ quindi ragionevole che sia remunerato con una certa partecipazione agli utili. Proviamo a vedere a quanto ammonta (2009) questa presunta partecipazione, per i principali top manager italiani, dopo aver scorporato, dal totale dei loro emolumenti, come “stipendio base”, una cifra dell’ordine di 10/15 volte la paga media, cioè 700mila euro. I dati provengono da un’indagine de Il Mondo (17 settembre). 
Come si vede dalla tabella, in genere si tratta di cifre fra 0,1% e lo 0,2% degli utili netti: così per Paolo Scaroni (Eni), Corrado Passera (Intesa SanPaolo), Fulvio Conti (Enel), Franco Bernabè (Telecom Italia), Sergio Marchionne (Fiat), Alessandro Profumo (Unicredit). Si sale un po’ con Andrea Guerra (Luxottica) allo 0,4% e Carlo Pesenti (Italcementi), quasi all’1%. Non mi sembrano cifre da capogiro. Fanno eccezione Marco Tronchetti Provera, con quasi il 23% degli utili Pirelli & C e Carlo Puri Negri (Pirelli R.E.), con emolumento variabile positivo pur in presenza di perdite. 
Tabella emolumenti
Naturalmente questa partecipazione potrebbe in parte essere erogata in azioni societarie (stock grants) con un lungo periodo di lockup. Con queste procedure potrebbe diminuire la reazione sociale agli eccessi retributivi e si eviterebbe anche di premiare chi produce perdite.


Due considerazioni finali 
Qui si innestano due considerazioni. 
La prima è che i comitati retribuzione delle principali quotate da anni svolgono un’analisi accurata dei parametri cui ancorare la retribuzione variabile dei CEO, legandola all’Ebitda, ai risultati commerciali, a quelli finanziari, ecc. Resta il fatto che sarebbe utile disporre di un parametro o di una regola preclusiva tassativa in presenza di perdite. 
La seconda considerazione riguarda la reazione sociale, che recentemente si è alimentata anche molto con gli eccessi delle buonuscite. Valga per tutte quella di Alessandro Profumo di 40 milioni di euro, nettamente superiore anche alla buonuscita contrattuale, che pure spesso rappresenta una condizione che la buona governance dovrebbe rifiutare. 
Anche il Financial Times ha stigmatizzato la buonuscita di Profumo, definendola come “un oltraggio” e “più generosa di quanto qualsiasi altro CEO di una banca di dimensioni simili abbia mai ricevuto”. 
È bastato questo per imbrattare una patente di equilibrio e di correttezza che, salvo rare eccezioni, contraddistingue il top management italiano.

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