Diciamo la nostra

DICIAMO LA NOSTRA a cura della Direzione

Questa rubrica promossa dalla Presidenza intende alimentare un dialogo costruttivo con gli associati che desiderano dare il loro contributo di idee, suggerimenti e critiche per la crescita della Comunità. 
In questo numero ospitiamo l’intervista a Mario Noera1 che ringraziamo per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Questa è la quarta intervista che pubblichiamo: la prima è stata fatta a Gianmaria Gros Pietro nel numero di luglio 2010 (N° 4), la seconda a Giovanni Maria Garegnani nel numero di ottobre 2010 (N° 5) e la terza a Carolyn Dittmeier nel numero di gennaio 2011 (N°6).


Che cosa non va in Italia nella governance? 
Il mercato azionario italiano è caratterizzato da un’elevata concentrazione della proprietà e dal prevalere di modelli insider, in cui famiglie, limitate coalizioni di azionisti attraverso patti di sindacato e talvolta lo Stato hanno un ruolo determinante. È quindi un sistema in cui il “conflitto di interessi” è, come lo ha definito Guido Rossi, “endemico”. Gli azionisti di controllo sono infatti spesso direttamente coinvolti nella gestione e la proliferazione di partecipazioni incrociate genera una “network community” tendenzialmente autoreferenziale, poco sensibile agli interessi dei soci di minoranza esclusi dai patti. 
La normativa delle operazioni con parti correlate per le società quotate emanata da Consob nel 2010 precisa il ruolo degli amministratori indipendenti e li arma di poteri. Tuttavia i requisiti di indipendenza professionale possono non essere un antidoto sufficiente. Gli amministratori indipendenti devono avere interlocutori chiari anche nell’azionariato di minoranza. Gli investitori istituzionali potrebbero svolgere un ruolo molto rilevante in questo contesto. 
Gli investitori istituzionali sono già quantitativamente molto importanti nella struttura proprietaria delle società quotate. Assogestioni si è molto spesa negli anni in questo senso, ma con risultati modesti. La configurazione istituzionale ed organizzativa che gli investitori istituzionali hanno assunto nel nostro paese non ne incentiva infatti l’impegno diretto nella governance delle società quotate. I fondi pensione sono poco propensi all’investimento azionario ed i fondi comuni, guidati dalle esigenze commerciali dei loro distributori retail, si muovono quasi sempre in ragione di logiche opportunistiche di massimizzazione del rendimento di breve periodo. Strutturalmente quindi il soggetto indipendente chiave – l’investitore istituzionale – sta in panchina e non partecipa al gioco. Quale sia l’influenza che invece gli investitori istituzionali potrebbero esercitare l’abbiamo percepito con la battaglia che il fondo “attivista” londinese Algebris scatenò sulla governance delle Generali nell’ottobre del 2007. Ma forse non a caso qui da noi i media si riferiscono ai fondi “attivisti” come “fondi locusta”, un’espressione che in italiano suona dispregiativa. Gli unici soggetti che per loro natura sono portati ad esercitare un ruolo attivo nelle società di cui sono azionisti sono i fondi di private equity. Essi però giocano ancora un ruolo limitato nel nostro paese. 
Una delle chiavi di ammodernamento del sistema finanziario italiano e di reale pluralismo societario sta quindi anche nell’evoluzione dell’atteggiamento degli investitori istituzionali. Il ruolo degli amministratori indipendenti ne verrebbe qualificato e rafforzato. 


Quali rimedi? 
La struttura del sistema finanziario italiano è estremamente bancocentrica. Le società che gestiscono fondi comuni e fondi pensione aperti fanno parte di Gruppi bancari. I gestori sono formalmente indipendenti, ma la loro logica di gestione è quasi sempre condizionata dalle priorità delle reti commerciali di Gruppo. Il ruolo di investitore istituzionale consapevole ed attivista richiede gestori che non dedicano la loro competenza solo a valutare la congruità dei prezzi che si formano giornalmente sul mercato in funzione del godimento di capital gains di breve periodo, ma anche gestori e strutture di ricerca che dedicano tempo ad approfondire le strategie d’impresa e ad elaborare proposte specifiche per le società in cui investono. Le SGR non possono quasi mai permettersi questo lusso: in parte perché il rafforzamento organizzativo delle società di gestione è limitato dall’elevatezza delle remunerazione che le SGR devono retroagire alle reti di distribuzione; in parte per la struttura stessa della governance delle SGR, nei cui CdA, almeno fino al recente passato, hanno avuto spesso un peso determinante gli esponenti delle reti distributive di Gruppo. 
Rafforzare l’indipendenza societaria delle SGR e rafforzare gli incentivi al gestore ad assumere orizzonti di investimento lunghi sono funzionali non solo alla mitigazione di potenziali conflitti di interesse ai danni dei risparmiatori, ma costituiscono il presupposto anche per un’evoluzione “a valle” della governance delle stesse società quotate.

Solo di recente questo terreno è stato oggetto di attenzione da parte delle Autorità di Vigilanza: nel 2008 Banca d’Italia ha promosso un gruppo di lavoro sui fondi comuni italiani nel quale, nell’ambito di un ventaglio molto ampio di altre misure, si proponeva un regime di incompatibilità tra amministratori delle SGR e gli esponenti del Gruppo di appartenenza, la presenza di amministratori indipendenti e limiti ai poteri di direzione e coordinamento della Capogruppo, da attuarsi sia attraverso interventi normativi, sia attraverso interventi di autoregolamentazione. Alle raccomandazioni di quel gruppo di lavoro sono poi seguite iniziative di autoregolamentazione del settore e raccomandazioni di Banca d’Italia nei confronti di gruppi bancari e SGR, di cui sarebbe interessante valutare oggi l’efficacia.  
Mi chiedo se a questo proposito non sia addirittura utile ragionare sull’opportunità di prevedere obbligatoriamente la pluralità dei soggetti controllanti SGR e dotare gli amministratori indipendenti delle società di gestione di responsabilità e poteri analoghi a quelli previsti per le società quotate in tema di operazioni con parti correlate. 


Lei è presidente dell’Aiaf. Ci vuole dire come può contribuire secondo lei Nedcommunity ? 
AIAF ha una missione generale di promozione della trasparenza e dell’efficienza del sistema finanziario; inoltre AIAF rappresenta professionisti della finanza che operano in tutti i settori del mercato, ma che hanno in comune elevate competenze tecniche ed una forte propensione etica all’indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni, anche quando le esercitano all’interno di istituzioni o grandi gruppi bancari.  
Nedcommunity, raccoglie il meglio degli amministratori non esecutivi italiani e svolge un ruolo insostituibile di approfondimento normativo e di stimolo perché il ruolo degli amministratori indipendenti sia realmente efficace nell’ambito di società quotate. Credo che lavorare anche sulle condizioni di indipendenza della governance degli investitori istituzionali, che non sono quasi mai società quotate, possa costituire un nuovo ed importante terreno di impegno comune. 


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