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Dialogo socratico sulla validità della C.G. Bastione dell’etica imprenditoriale o “foglia di fico”?

Tra gli addetti ai lavori della finanza da tempo serpeggia sotto le righe, un po’ come un fiume carsico, un dibattito sulla validità della Corporate Governance.

In occasione della grande crisi dei mercati che stiamo vivendo la diatriba assume attualità e ci pare pertanto utile mettere a confronto le opinioni di due analisti finanziari indipendenti, professionalmente qualificati: Daniela Carosio che fa parte di Nedcommunity e di Aiaf, dove è membro del collegio dei Probi Viri ed Alfonso Scarano, responsabile di numerosi gruppi di studio Aiaf e membro del Consiglio Direttivo della medesima associazione. Proponiamo dunque una sorta di “dialogo socratico” che possa fornire uno stimolo alla dialettica ed un contributo intellettuale per la valutazione dell’efficacia o meno della C.G., anticipando fin d’ora che i due autori intendono proseguire il loro dialogo nei numeri futuri con l’analisi della C.G. Telecom Italia alla luce del rating fatto a suo tempo da Standard & Poor’s. Gli interventi dei lettori saranno graditi e presi in considerazione.   

Alfonso – Se analizzo criticamente i sistemi di governo societario, sia concettualmente che nelle pratiche, mi sembra che questi sistemi siano andati istituzionalizzandosi come veri e propri strumenti operativi e “culturali” del capitalismo globalizzato.  In proposito, ho sempre più netta la sensazione (condivisa da molti) che l’antico precetto di una corretta gestione di impresa secondo un’etica imprenditoriale sia stato man mano sostituito da concetti un po’ più evanescenti, però con caratteristiche formali estremamente tecniche e praticamente comprensibili soltanto agli addetti ai lavori. Tale strisciante “rivoluzione culturale” non si riduce ad un mero cambiamento lessicale ma ha soprattutto messo sotto al termine omnicomprensivo di Corporate Governance tutto ciò che riguarda la gestione di impresa con una vasta codifica di modelli e regole di gestione, per lo più formali, che hanno finito per ridurre sensibilmente  le responsabilità personali. Una nuova veste codificata di coscienza morale degli amministratori, sancita anche da ponderosi codici etici. Un complesso di relazioni dove i comportamenti rischiano di appiattirsi su regole che comunque potrebbero lasciare sempre utili scappatoie. Non ti sembra che la Corporate Governance, così come viene utilizzata, rischia di trasformarsi in una “foglia di fico” che nasconde una sostanziale carenza di quella che una volta si chiamava semplicemente etica imprenditoriale?   

Daniela – Concordo con te sul primo punto La Corporate Governance in quanto sistema volontaristico di autogoverno rappresenta uno strumento del capitalismo globalizzato e come concetto si afferma quando nasce la società per azioni che mette insieme una pluralità di finanziatori per sostenere importanti attività di impresa, ad esempio vedi lo sfruttamento dei traffici commerciali con l’Asia da parte della compagnia olandese delle Indie Orientali (VOC) prima e di quella inglese poco dopo. Non concordo però con il secondo punto, quando sostieni che la Corporate Governance sia un sostituto, dalle caratteristiche tecniche complesse, dell’etica imprenditoriale. Infatti, l’etica del singolo imprenditore o di una organizzazione complessa come è una azienda o addirittura una corporation multinazionale sta a monte e informa con valori precisi il sistema di governance che secondo la divisione dei poteri scelta traduce in struttura, organizzazione e processi la visione etica dell’imprenditore o dell’azienda. È chiaro che un imprenditore plasma l’impresa sui suoi valori, mentre è molto più complesso mantenere una impronta valoriale univoca e condivisa a tutti i livelli in una azienda di seconda o terza generazione e ad azionariato diffuso. Non parliamo poi di una big corporation multinazionale. Non condivido, infine, la tua affermazione provocatoria che la Corporate Governance si sia trasformata in una foglia di fico. Certo dopo i recenti sviluppi e la crisi finanziaria globale che stiamo vivendo c’è da porsi profondi interrogativi su come abbia o meglio non abbia funzionato la C. G. nelle grandi banche internazionali. Nel suo complesso c’è stato un fallimento più ampio della governance dei mercati e dei suoi attori, a partire dalle Autorità di Vigilanza, le Banche Centrali, le società di rating e via via fino alle logiche di investimento e ai controlli adottati dagli investitori istituzionali. Non credo però che il termine Corporate Governance si sia trasformato in uno sterile “mantra” perché, specie nell’attuale crisi di fiducia, c’è in tutti la consapevolezza che un miglioramento della governance vada costantemente perseguito, non solo delle corporation, ma anche dei mercati, eliminando alla fonte i conflitti di interesse e valutando in ogni specifica situazione quali sono gli interessi in gioco da soppesare, bilanciare e regolare.  Se vogliamo impegnarci a migliorare la Corporate Governance, dobbiamo evitare di “buttare il bambino con l’acqua sporca”! 

Alfonso – In realtà la provocazione della “foglia di fico” viene dalla semplice lettura di numerose vicende in cui proprio la magnificazione della C.G. come soluzione dei problemi del buon governo aziendale ha permesso (o fors’anche creato) le condizioni di un successivo fallimento del buon governo dell’impresa. Troppo spesso ne abbiamo avuta concreta notizia dai risvolti giudiziari delle varie vicende. In altre parole,  un rischio di sistema  non potrebbe essere quello per cui la moltiplicazione delle auto-regole determini una non essenziale complessità e un generale frantendimento? Ad esempio l’enfasi posta al sistema duale, composto da una parte di un comitato di sorveglianza e dall’altra dai comitati operativi, alla luce dell’esperienza in Italia ha certamente creato duplicazioni di ruoli ed incarichi, spesso senza reale beneficio per il buon governo dell’organizzazione. Manna per i consulenti della governance e per la nuova abbondanza di doppie poltrone, ma non ci dovremmo onestamente domandare se tutto ciò sia stato un bene? Occorre anche osservare che il duale reale alla tedesca, solo i tedeschi  lo sanno far funzionare. Ma è fuor di dubbio che i comportamenti italiani sono molto differenti dai loro. Siamo veramente convinti che, anziché ragionare sulle migliori possibili regolamentazioni di governance, volontaristiche per definizione, non si debba puntare maggiormente sulla trasparenza verso il pubblico? Questo sì potrebbe rappresentare un forte deterrente alle manipolazioni; o no? Non occorre forse tendere ad accorciare il distacco del vertice aziendale con gli staketholders e con gli azionisti tutti?  

Daniela – Perdonami, ma mi sembra di cogliere tra le righe una certa contraddizione quando sembri proporre la legge come unico deterrente e poi sostieni l’inutilità dell’autodisciplina.Concordo invece pienamente quando affermi che il migliore deterrente sia la promozione di una cultura severamente critica nei confronti di comportamenti fraudolenti, e anche solo opportunistici, ma contrari all’interesse sociale. Il risultato doloroso di questa crisi finanziaria è l’impatto terribile che sta avendo sull’economia reale che potrà mettere in serio rischio la tenuta sociale. Il famoso interesse sociale che ora porta a socializzare le perdite di grandi banche ed assicurazioni non potrà poi rinascere su queste basi riaffermando l’individualismo e l’opportunismo, ma nuovi modelli di solidarietà sociale. Permettimi ancora di affermare che preferirei che le tue pur fondate osservazioni sulla Corporate Governance, il Codice Etico e gli Amministratori indipendenti vengano contestualizzate nel dibattito giuridico e tecnico, italiano e internazionale. E questo lo affermo perché amo le soluzioni concrete caso per caso, pur avendo anche in mente la posizione sul tema di Guido Rossi che anche nel suo libro ‘Il mercato d’azzardo’ sostiene e articola con dovizia tesi affini alle tue. Sono però d’accordo con te che il crescente numero di adempimenti burocratici (compliance) spesso non rappresenta una soluzione, ma un problema e fa sì che gli amministratori vengano assorbiti più dalla forma che dalla sostanza. Esistono amministratori con elevato spirito etico e professionalità che vengono assorbiti dall’osservanza degli adempimenti normativi e hanno poco tempo per il resto. Questo però è un altro tema che meriterebbe una trattazione a parte. In sintesi, non credo proprio che la presenza di regole di C.G. possa ridurre l’impegno e la responsabilità etica degli amministratori. Peraltro sono d’accordo con te che l’eccessiva burocratizzazione finisce per ridurre la responsabilità degli amministratori e l’efficacia delle regole. Lo sosteneva già Max Weber all’inizio del secolo scorso. 

Alfonso – Il caso Telecom  Italia può ben rappresentare un probabile esempio di uso della C.G. come mera comunicazione finanziaria. Il sistema di C.G. della Telecom Italia è stato giudicato molto buono da un rating di Standard & Poor’s ma alla prova dei fatti e delle indagini della magistratura negli anni successivi è stato incapace di contrastare le notevoli distorsioni delle funzioni di alcuni ruoli e, forse, della complessiva missione aziendale.  Mi assale il dubbio che il conflitto di interessi sia stato sistematicamente offuscato dalle regole di C.G. e che la nomina di amministratori indipendenti sia servita solo alle statistiche per le selezioni di portafogli da parte dei gestori. Non hai anche tu la sensazione che tutte queste regole, alla luce dei fatti, finiscano per diventare inutili o, peggio, delle foglie di fico? A me pare che in un paese civile e moderno il miglior deterrente per i comportamenti illeciti siano le buone leggi e la loro efficace applicazione. 

Daniela – Mi spiace, ma debbo ancora rilevare una confusione tra regole e leggi. Forse intendi sostenere che le regole di compliance sono complicate? E qui effettivamente si pone il problema di scelta di Governance versus Government… Per quanto riguarda, invece, la tua critica al rating dato da S&P a Telecom Italia nel 2004 e 2005, che a tuo modo di vedere non rispecchiava la realtà ed era sopravvalutato, penso che tu abbia ragione e che l’attenzione di S&P sia stata maggiormente catturata dai temi di compliance, più che dalla presenza di un forte conflitto di interesse di un azionista di maggioranza relativa che attraverso una lunga catena controllava meno del 20% del capitale di Telecom Italia e che, pur avendo formalmente messo in piedi una serie di procedure formalmente impeccabili, come il trattamento delle operazioni con parte correlate, in realtà perseguiva il suo interesse che non necessariamente coincideva con quello della società. Vedi anche le politiche di remunerazione.  Come componente del team di valutazione di S&P dal 2003 al 2005 ho sottolineato varie volte questo aspetto. 

Alfonso –  Nessuna confusione. Intendo semplicemente esprimere con forza il primato della legge. Anche se, col nostro un sistema giudiziario troppo lento e spesso inefficace, penso che questa situazione abbia svolto un ruolo di placebo dando una maggiore enfasi alle regole ed ai codici etici. Gli esempi avuti sono tali da far sorgere il dubbio che la C.G. così come è stata applicata e utilizzata, abbia potuto trasformarsi in una “foglia di fico” su reali problemi di etica imprenditoriale. Basti pensare ai casi Telecom Italia,  Parmalat, Thyssen Krup,  Enron, WorldCom, ecc. 

Daniela – Non credo nel ritorno alle origini di una mitica età dell’oro. Ti faccio notare che la responsabilità personale e la figura dell’imprenditore shumpeteriano non sono una prerogativa del passato, ma continuano ad esistere. Però dipendono dagli uomini e dalla cultura prevalente, non dalle leggi. Non vedrei gli scandali finanziari da te elencati come una prova dell’assoluta inutilità del governo societario. È vero piuttosto il contrario: si insiste particolarmente sulla C.G. proprio all’indomani degli scandali in cui è risultata evidente la mancanza di etica negli affari e l’assenza di controlli soddisfacenti. Vedi la reazione  che c’è stata a livello mondiale a seguito degli esempi che hai citato: il Sarbanes Oxley Act (SOX) negli Stati Uniti, la legge sulla tutela del risparmio in Italia, con i relativi Regolamenti Consob. Oggi poi con la crisi finanziaria che stiamo vivendo il tema si è esteso alla governance dei mercati. Il sistema certo va ripensato a livello globale. 

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