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Consigli di lettura – Maggio 2022

Una visione critica e disincantata dello stakeholder capitalism: Lucian A. Bebchuk, Kobi Kastiel, Roberto Tallarita, mettono in evidenza come gli interessi degli shareholders siano prevalenti rispetto a quelli degli altri stakeholders nelle acquisizioni di aziende con un valore superiore al miliardo di dollari

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Di Francesca Palazzini – Michele Siri

Lucian A. Bebchuk, Kobi Kastiel, Roberto Tallarita, Stakeholder capitalism in the time of Covid, Forthcoming, Yale Journal on Regulation, Volume 40 (1), 2023.


Lo stakeholder capitalism sostiene un modello di società in cui le imprese sono orientate a soddisfare gli interessi di tutti i loro stakeholders, e non solamente gli azionisti. Letteralmente il termine stakeholder indica tutti coloro i quali abbiano interesse verso un determinato investimento, fra questi vi sono gli impiegati dell’impresa, i clienti, i fornitori, ma anche le comunità locali e l’ambiente naturale. In termini generali, dalle imprese ci si aspetta che abbiano cura di tutelare tutti coloro con i quali hanno un rapporto e che potrebbero essere influenzati dalle loro scelte di gestione.
 
Misurare la ragionevolezza di tale visione vuol dire rispondere alla domanda se spetti alle imprese il compito di predisporre le tutele idonee a soddisfare gli interessi in questione oppure se un simile compito debba essere assolto da altri soggetti, lasciando le stesse libere di perseguire lo scopo di lucro per il quale sono state create.
 
La teoria è stata messa alla prova da uno studio condotto da Lucian A. Bebchuk, Kobi Kastiel e Roberto Tallarita, dal titolo “Stakeholder capitalism in the time of Covid”, che mette in evidenza come le acquisizioni di società pubbliche aventi un valore superiore ad un miliardo di dollari annunciate nel corso della pandemia non abbiano tenuto conto degli interessi degli stakeholder.
 
Si tratta di un’analisi di più di cento acquisizioni, per un valore superiore a settecento miliardi di dollari. In particolare, gli autori arrivano a dimostrare che, sebbene il grande sostegno raggiunto di recente, lo stakeholder capitalism non è una teoria che si presta a trovare concreta applicazione. L’unica ragione per cui le imprese possano decidere di sostenere gli interessi degli stakeholders è che questi siano funzionali a quelli degli shareholders.
 
Secondo i dati raccolti dagli autori, risulta che nella quasi totalità delle negoziazioni gli stakeholder non sono stati presi affatto in considerazione. Ad esempio, in appena il quattro per cento degli accordi è stato imposto un limite agli eventuali licenziamenti e in nessuno è stato previsto l’obbligo di corrispondere un risarcimento specificamente diretto ai lavoratori licenziati.
 
Ci si può domandare se i dati possano risultare falsati dalla particolarità del periodo preso in considerazione. Gli autori rispondono negativamente, poiché la pandemia non solo ha determinato una crescita repentina nel mercato azionario, rendendo ben più plausibili le possibilità di avvantaggiare gli stakeholders, ma ha anche riconosciuto l’emersione di nuovi interessi.
 
Gli autori esprimono una visione particolarmente critica e disincantata, reputando che i managers non sarebbero incentivati a servire gli interessi degli stakeholder al di là di ciò che sarebbe strumentalmente utile per aumentare il valore per gli azionisti, ed avvertono il rischio di fare un illusorio affidamento sui sostenitori dello stakeholder capitalism.

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