CoCos e strumenti ibridi – Nuovi scenari regolamentari e vecchi problemi fiscali
Le recenti cronache finanziarie ripropongono l’attualità del tema della capitalizzazione delle banche italiane. Con l’approssimarsi dell’entrata in vigore dei criteri di Basilea 3, gli istituti di credito italiani si vedono costretti ad affrontare una patrimonializzazione non priva di ostacoli e di incertezza.
Negli ultimi mesi si è assistito ad un ampio dibattito sulla necessità delle banche italiane di ricorrere al mercato dei capitali. Così una serie di banche stanno procedendo con decisione sulla strada degli aumenti di capitale, cercando anche di bruciare sul tempo le proprie concorrenti. Il rischio evidente sarebbe quello di rivolgersi al mercato in una situazione di ingorgo per le emissioni di azioni bancarie; del resto la platea degli investitori in equity è necessariamente limitata e non sarebbe in grado di assorbire, in un breve lasso temporale, una quantità eccessiva di aumenti di capitale.
L’innalzamento dei ratios patrimoniali
L’attenzione del mercato agli aumenti di capitale si spiega alla luce dei nuovi ratios patrimoniali imposti dal Comitato di Basilea 3, in vigore a partire dal gennaio 2013.
Come noto, il Comitato ha incrementato il requisito minimo per il coefficiente patrimoniale di qualità primaria (il c.d. Core Tier I Ratio, composto proprio dalle azioni, più utili e riserve) da un valore (implicito) del 2% ad un valore, a regime, del 4,5%. Inoltre, il Comitato ha anche introdotto, a partire dal 2015, un nuovo “cuscinetto” di capitale aggiuntivo (il c.d. capital conservation buffer), che a pieno regime dovrà essere pari al 2,5%. Anche questo cuscinetto dovrà essere formato da azioni. Il mancato rispetto di questo requisito comporterà per le banche restrizioni nella distribuzione degli utili e nell’attribuzione di bonus al personale.
Si spiega quindi il motivo per cui il mercato si aspetta che le banche abbiano costantemente un Core Tier I Ratio del 7%.
Occorre tuttavia considerare che le nuove regole di Basilea 3 hanno anche alzato il coefficiente del patrimonio di base (che include anche i c.d. “strumenti ibridi”), portandolo dal 4% al 6% a regime. Inoltre, è stato introdotto un ulteriore cuscinetto (il c.d. countercyclical buffer), che dovrebbe essere compreso tra 0% e il 2,5% dei risk weighted assets. Tale buffer verrebbe attivato discrezionalmente da parte delle singole autorità di vigilanza in periodi di crescita eccessiva del credito al fine di controbilanciare i maggiori rischi assunti dagli istituti di credito. Anche questo cuscinetto dovrebbe essere coperto solamente con azioni ed altri strumenti che consentono un pieno assorbimento delle perdite.
Le banche dovrebbero quindi guardare presto anche all’emissione di strumenti ibridi, sia per quanto riguarda la loro inclusione nel coefficiente del patrimonio di base, sia per la copertura del countercyclical buffer.
L’opportunità: l’uso dei CoCos e dei altri strumenti ibridi nel nuovo scenario regolamentare
Gli strumenti ibridi di nuova generazione (già in linea con le nuove caratteristiche previste dal Comitato di Basilea) potranno anche assumere la veste dei famigerati CoCos (Contingent Convertibles, cioè strumenti finanziari che si convertono al ricorrere di determinate fattispeci). Trattasi di strumenti che al momento della loro emissione hanno caratteristiche a metà strada tra debito ed equity (per questo comunemente chiamati “ibridi”), ma che al verificarsi di determinati eventi legati alla solidità finanziaria della banca emittente si convertono in azioni, permettendo così alla banca emittente di assorbire una parte delle perdite subite (il portatore del titolo ibrido si troverebbe, infatti, a seguito della conversione, equiparato in tutto e per tutto ad un azionista della banca, con conseguente downgrading del proprio credito).
Sembra, inoltre, che i CoCos potranno essere emessi dalle banche anche per la copertura del countercyclical buffer. Nel settembre scorso quando il Comitato di Basilea ha introdotto questo buffer, aveva specificato che poteva essere coperto non necessariamente da azioni, ma anche con strumenti che consentissero un pieno assorbimento delle perdite (gli ibridi appunto). Nell’ultimo documento di dicembre pubblicato dal Comitato, invece, sembra che si stia ancora ragionando sulla necessità che tale buffer sia ricoperto solamente con azioni.
Sembra improbabile che possa passare una linea che imponga la copertura di tale buffersolamente con azioni; ciò comporterebbe, infatti, che in determinati periodi (quelli appunto in cui le singole autorità nazionali imponessero il rispetto anche del countercyclical buffer) le banche dovrebbero portare il loro Core Tier I Ratio al 9,5%, formato dal valore “normale” del 4,5%, dal cuscinetto aggiuntivo del capital conservation buffer pari al 2,5% e da questo ulteriore 2,5% rappresentato dal countercyclical buffer.
Sul tema dei CoCos, deve anche registrarsi l’interesse della Banca d’Italia che nel settembre scorso ha pubblicato un paper in cui si illustravano i benefici dei CoCos per la copertura del countercyclical buffer. In sostanza, si tratterebbe di una categoria di CoCos diversa rispetto ai CoCos “ibridi” emessi dalle banche per la loro inclusione nel patrimonio di base.
Insomma, i CoCos sono ancora all’inizio, ma sembra già che potranno assumere molteplici forme.
Il limite: il regime fiscale ambiguo e penalizzante
Sui CoCos, tuttavia, e più in generale sugli strumenti “ibridi”, vi sono una serie di incertezze relative al loro trattamento fiscale.
I nuovi requisiti regolamentari imposti dal Comitato di Basilea per gli ibridi e i CoCos, infatti, vanno ad impattare sull’obbligo incondizionato di rimborso integrale del capitale; il rimborso integrale verrebbe meno nell’ipotesi in cui, a seguito di un evento che aveva comportato una riduzione del valore nominale del titolo, intervenga la liquidazione della società.
Tali nuovi requisiti regolamentari incidono sulla qualificazione fiscale dei titoli ibridi e dei CoCos, facendoli avvicinare pericolosamente alla categoria residuale dei titoli “atipici”, che, rispetto alle obbligazioni, sono penalizzati da un punto di vista fiscale (sia per la misura dell’imposta, sia per i meccanismi applicativi).
Si attende a breve, tuttavia, un intervento da parte del legislatore che scongiuri tale rischio e faccia ricadere tali strumenti nella categoria delle obbligazioni, permettendo così alle banche italiane di emettere questi strumenti a tassi in linea con quelli delle principali concorrenti europee.
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