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BIBLIOTECA NED a cura di Paola Schwizer

William Sun, Jim Stewart e David Pollard (2011), Corporate Governance and the Global Financial Crisis: International Perspectives, Cambridge University Press, UK.

Il dibattito sul ruolo della corporate governance nella crisi finanziaria è tutt’altro che finito. Un nuovo volume di oltre 400 pagine, in uscita proprio in questo mese di settembre dalla Cambridge University Press, ripercorre cause e ragioni di quello che definisce un “fallimento” dei codici e dei principi di buon governo societario introdotti negli ultimi due decenni. Il volume raccoglie contributi di studiosi ed esperti di varie discipline, americani, europei e asiatici; tra di essi numerosi esponenti delle Associazioni dei consiglieri di amministrazione, che forniscono un’evidenza recente e analitica sulle cause della crisi riconducibili alla corporate governance, esponendosi anche a riconoscere i punti di debolezza delle norme e delle rispettive modalità di attuazione.


Il punto di partenza è considerata l’analisi condotta dall’OCSE nel 2009, che poneva in evidenza quattro aree di criticità della corporate governance: le politiche di remunerazione del top management, il governo e la gestione dei rischi, il funzionamento dei consigli di amministrazione e le modalità di esercizio dei propri diritti da parte degli azionisti. Alla base vi sarebbe un problema ideologico, frutto dell’esasperazione nella ricerca del profitto, dello strapotere dei top manager, dell’assenza degli azionisti. La governance avrebbe fallito nella crisi per il fallimento della mano invisibile del mercato e per quello della mano visibile del management e dei consiglieri di amministrazione. Secondo gli autori, le origini del fallimento andrebbero però ricercate nei paradigmi, nei modelli e negli orientamenti propri della corporate governance moderna. Affermando l’esistenza di un problema sistemico di corporate governance, gli autori cercano di non concentrarsi sui temi di composizione e di funzionamento dei consigli di amministrazione e propendono per una visione della governance a quattro livelli che definiscono come: regulatory governancemarket governancestakeholder governance e internal (o shareholdergovernance. Nel garantire equilibrio alla gestione e controllo su di essa, i primi tre livelli sarebbero del pari importanti rispetto al quarto, nel quale si sviluppa la dialettica tra proprietari e manager per il tramite del consiglio di amministrazione. 


Nei singoli contributi presenti nel volume si affrontano tre principali prospettive. 


La prima parte è dedicata all’approccio market-oriented proprio dei modelli di governance anglosassone, nel quale la governance è regolata in prevalenza da codici di autodisciplina e da meccanismi di mercato e l’attività economica è guidata da incentivi di natura finanziaria legati alla creazione di valore per gli azionisti nel breve termine e connessi con alte remunerazioni dei manager. 


La seconda parte si concentra sul fallimento dei sistemi di internal governance, dovuto – secondo gli autori – all’inefficacia dei controlli sui principali processi decisionali, alle carenze nel risk management, a comportamenti inadeguati dei manager nel periodo della crisi. Alla base di tutto vi sarebbe una spaccatura nella relazione tra azionisti, consiglieri e manager e una eccessiva distanza degli investitori istituzionali e in particolare dei gestori di fondi, troppo impegnati a diversificare i propri portafogli per occuparsi di monitorare le singole realtà aziendali. 


Illuminante è il contributo di Jay Lorsch sul ruolo dei consiglieri di amministrazione. La capacità dei consiglieri di impostare la relazione con il management in modo equilibrato, dosando controllo e supporto, si rivelerebbe preziosa. Ma sarebbe ancora più determinante la possibilità per i primi di ricercare informazioni ed elementi di valutazione al di fuori del contesto aziendale e dell’informativa trasmessa dai manager, senza che ciò sia considerato un atto di sfiducia o di lesa maestà.


Quanto alla “dose” giusta di regolamentazione, gli autori non sono concordi. Se da un lato si afferma l’importanza di un quadro di regole certe, e ben coordinate fra di loro, dall’altro vi è chi sostiene che esse dovrebbero limitarsi al settore finanziario, lasciando invece una maggior libertà di scelta dei modelli di governo e di controllo alle altre imprese. Ne emerge una proposta di “regolamentazione intelligente”, non restrittiva e reattiva solo di fronte ai problemi, ma capace di stimolare e potenziare l’innovazione finanziaria e il mercato, creando e mantenendo in questo modo una cultura della trasparenza e dell’accountability.


Nella terza parte del volume si guarda al futuro e si torna ai valori alla base della governance. Gli autori sollecitano la ricerca di un equilibrio tra compliance e comportamenti, realizzabile con una normativa che garantisca alti livelli di disclosure e strutture di governance affidabili, ma che guidi anche verso una maggiore attenzione ai profili culturali, alle modalità di esercizio della leadership, e del potere, alla gestione delle risorse umane, con il fine ultimo di garantire che sia l’etica a guidare gli obiettivi organizzativi e non che siano questi a spingere verso nuovi, e meno condivisibili, principi e modelli di comportamento.  


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