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L’attenzione al bene comune, premessa del benessere collettivo e di uno sviluppo sostenibile, accomuna – in un accostamento bizzarro ma a mio parere interessante proprio nell’attuale momento storico – due libri ed i rispettivi autori, distanti alcune

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Joseph E. Stiglitz, People, Power and Profits. Progressive capitalism for an age of discontent, Allen Lane, Penguin Books, 2019

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Giacinto Dragonetti, Delle virtù e de’ premi , Vita e pensiero, Milano, 2018 (riedizione dell’opera del 1766)

L’attenzione al bene comune, premessa del benessere collettivo e di uno sviluppo sostenibile, accomuna – in un accostamento bizzarro ma a mio parere interessante proprio nell’attuale momento storico – due libri ed i rispettivi autori, distanti alcune centinaia di anni.

Joseph Stiglitz è vincitore del premio Nobel per l’economia (2001) e indicato dalla rivista Time tra le cento persone più influenti al mondo. Attualmente insegna alla Columbia University di New York. Il suo nuovo libro costituisce al tempo stesso un formidabile attacco al capitalismo mondiale, basato sui principi di un libero mercato indiscriminato e predatorio, ed una proposta di un capitalismo progressista, basato sul progresso della scienza e della tecnologia e sulla diffusione dell’istruzione, in grado di rendere la prosperità una risorsa effettivamente a disposizione delle persone. Un’opera ambiziosa, dichiaratamente contro la Trumponomics ed il neoliberalismo, basati su una combinazione dell’abbassamento delle tasse per i ricchi e della deregolamentazione finanziaria ed ambientale, accompagnati da un forte protezionismo, anche nazionalista (e quasi etnico).

Giacinto Dragonetti, nato a L’aquila nel 1738, avvocato e magistrato a Napoli, è autore dell’opera “Delle virtù e de’ premi”, certamente influenzato dal più famoso “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Dragonetti è tra i padri dell’economia civile napoletana, una corrente di pensiero economico, tipicamente italiana, che ambisce a superare i limiti del capitalismo e a recuperare una visione olistica dell’uomo, in una prospettiva laica. Il lavoro, pubblicato nel 1766, è stato recentemente riproposto in un’edizione moderna da Vita e Pensiero.

Secondo Stiglitz, i mercati falliscono nel conseguire una prosperità condivisa, se non sono in grado di mediare tra il ritorno sociale di una determinata attività ed il profitto privato che ne deriva né producono in modo adeguato “public goods” (ad esempio la sicurezza o la prevenzione contro le calamità). L’incremento della ricchezza di un paese, che conduce al miglioramento degli standard di vita, dipende dall’aumento della produttività che a sua volta dipende dalla conoscenza, che è connessa ai progressi della scienza e della ricerca. Non bisogna confondere la ricchezza di un paese con quella di gruppi di individui, che dipende semmai da meccanismi di redistribuzione della ricchezza. Stiglitz insiste sul fatto che un’economia con maggiore eguaglianza sia in grado di generare migliori performance, contrariamente ad un’opinione diffusa che la riduzione delle disparità si paga con meno efficienza e crescita. Non è vero infatti che se l’economia cresce tutti ne beneficiano. Per questo motivo i programmi pubblici di sviluppo vanno ben strutturati per i loro effetti distributivi, eliminando la convinzione che il “mercato farà il resto”. Tutto dipende da come i mercati sono organizzati e governati. Per questi motivi politica ed economia non possono essere separate e l’ineguaglianza economica porta al consolidarsi di un potere politico che può essere letale per la democrazia. Occorre un sistema efficace di “checks and balances” per evitare che si sviluppi una logica “one dollar one vote” piuttosto che una “one person one vote”. Si assiste anche ad una crisi di valori, di molto deteriorati rispetto alla coesione, alla fiducia e all’onestà del passato, che minacciano l’identità stessa del popolo americano. L’isolamento non è un’opzione percorribile (né sul fronte migratorio né su quello del commercio estero) perché non è da esso che arriva la soluzione alla perdita dei posti di lavoro e alla deindustrializzazione: viviamo tutti in un mondo interconnesso e dobbiamo sfruttarne le opportunità economiche e politiche. Per conseguire uno sviluppo economico dal quale tutti possano trarre giovamento occorre rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza, ribilanciando il potere di mercato assegnato ai vari attori in campo (primi tra tutti i grandi gruppi sovranazionali ed i lavoratori). E’ il tempo di cambiamenti epocali. Piccoli aggiustamenti non servono. E l’economia ha bisogno della politica. Senza quest’ultima nessuna riforma economica ha senso.

Certamente gli spunti di riflessione non mancano, anche in una prospettiva europea e italiana, specie nella direzione della sostenibilità (ormai diventata la parola d’ordine… anche un po’ abusata). Basti leggere al riguardo gli ampi riferimenti all’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile, rinvenibili nei recentissimi documenti programmatici di Ursula von der Leyen e di Giuseppe Conte.

Secondo Dragonetti, l’armonia tra interesse individuale e generale è assicurata appunto dal premio, che va inteso però non in un’ottica puramente retributiva. Il premio, nell’etica delle virtù, è pubblico, simbolico, ex post, e va distinto dall’incentivo, che è privato, monetario, ex ante. La virtù si intende tale nei casi in cui si persegua il vantaggio collettivo e non personale. La ricompensa estrinseca e sociale è essenziale ma la vera virtù poggia sulla gratificazione che il singolo prova per il solo fatto di mettere in atto un comportamento virtuoso. L’esercizio della virtù si differenzia quindi dalla ricerca dell’interesse, che trae origine dall’incentivo e presuppone un pessimismo antropologico per il quale l’uomo sarebbe un animale controllato da sanzioni (si pensi appunto a “Dei delitti e delle pene” di Beccaria) e incapace di sentimenti alti.

Oggi rischia di diffondersi l’ipotesi delle «mele marce», pochi individui nelle organizzazioni che con comportamenti scorretti rischiano di contaminare tutta l’azienda. Addirittura si arriva ad attribuire all’azione di individui affetti da disordini mentali anche gravi (si veda il libro Corporate psychopaths di Clive R. Boddy, edito da Palgrave) i comportamenti inadeguati delle aziende. Questa impostazione non mi convince. La reputo una posizione pericolosa, che può generare alibi tali da rendere il fenomeno ancora più preoccupante. Sovente i comportamenti non compliant non scaturiscono da un’inadeguata integrità a livello personale o dalla «naturale» propensione individuale ad azioni non compliant, ma dall’influenza di fattori esogeni, ambientali e aziendali, che alterano una corretta conversione dei valori individuali in atteggiamenti e azioni. Come è noto, nel caso di Jerome Kerviel, il trader della Société Générale scoperto all’inizio del 2008 per una perdita stimata in 5 miliardi di dollari, vi è stata l’assenza di un supervisore diretto per gran parte del 2007; il nuovo supervisore, poi nominato, non aveva alcuna esperienza sull’attività svolta da Kerviel; prima che fosse scoperto, le sue azioni hanno provocato segnali di alert nei sistemi di controllo della banca 75 volte.

Le persone in genere sanno cosa è giusto o sbagliato ma spesso nelle organizzazioni si creano condizioni connesse al funzionamento di gruppi (groupthinking), alla distorsione di meccanismi operativi (incentivi), al frazionamento delle responsabilità («non dipende certo da me»…), che rendono quasi impossibile all’individuo (o certamente molto difficile) prendere decisioni considerando alternative a certi comportamenti che si rivelano lontani da standard di integrità. Si veda al riguardo la sintesi della deposizione di Kweku Adoboli, trader di Ubs (27 anni, coadiuvato da un collaboratore di 3 anni più giovane) che ha causato una perdita di 2,3 miliardi di dollari «mi sono chiesto come potevo aiutare la banca che stava soffrendo la crisi; la banca per me è la mia famiglia, lavoravo 12-15 ore al giorno…». Nel consolidamento di valori e nella diffusione di comportamenti integri è implicita la presenza di relazioni oneste e di fiducia tra le persone. Le persone vanno accompagnate e aiutate: ci vogliono supporti organizzativi. L’onere della motivazione a un comportamento integro deve spostarsi dall’individuo all’organizzazione. La «traduzione» della compliance in comportamenti passa quindi certamente da una valutazione individuale, che risulta peraltro sempre inserita in un contesto sociale. L’integrità è come un muscolo, va allenata.

Dice Dragonetti “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti e non ne hanno stabilita una per premiare le virtù”. Ma nel dibattito scientifico e culturale di quel tempo, e non solo, “vinse” Beccaria….

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Alessandro Carretta, membro del Consiglio Direttivo di Nedcommunity, del Comitato Editoriale della Rivista e curatore di questa rubrica

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