Approfondimenti

Operatività temporale e rappresentazione del rischio nella polizza assicurativa D&O: aspetti critici

Pubblicato il 27/9/2018 sul numero 36 de La Voce Degli Indipendenti

Premessa

Nel precedente articolo pubblicato sul n. 35/2018 di questa rivista, è stata analizzata la funzione e la struttura delle polizze assicurative D&O (“Directors & Officers Liability“) e sono stati illustrati i motivi che negli anni hanno spinto un numero sempre maggiore di società a stipulare contratti assicurativi di questo tipo in favore dei soggetti apicali appartenenti alla propria organizzazione.

Il successo e la crescente diffusione di tale strumento di protezione del patrimonio personale degli assicurati non devono tuttavia indurre a pensare che le polizze D&O siano contratti dalla struttura semplice ed immediata e che la mera attivazione di una copertura di questo tipo sia sufficiente a mettere al riparo l’assicurato da qualsiasi problema nel momento in cui un sinistro dovesse verificarsi.

Le polizze D&O attualmente distribuite sul mercato italiano sono infatti strumenti decisamente complessi e sofisticati e richiedono di essere gestite con la massima perizia sia nella fase “genetica” di stipula del contratto e di compilazione del questionario preassuntivo, sia in sede di eventuale fase “patologica” di gestione del sinistro.

Non solo, il livello di attenzione deve essere mantenuto alto durante tutto il periodo di validità della polizza, in quanto anche nel corso di tale lasso temporale l’assicurato o la società contraente possono venire a conoscenza di determinati fatti o circostanze idonei ad influire sul rischio assicurato e in tal caso devono sapere come comportarsi, per non rischiare di perdere il diritto all’indennizzo in caso di futura richiesta risarcitoria da parte del soggetto danneggiato.

Nei prossimi paragrafi tratteremo dunque il tema dell’operatività temporale delle polizze D&O, e lo faremo in parallelo all’analisi dell’obbligo dell’assicurato e della società contraente di rappresentare fedelmente il rischio all’assicuratore. I due ambiti sono infatti connessi e presentano delicate ricadute l’uno sull’altro.

Operatività temporale delle polizze D&O e clausole claims made

(i) Schema claims made vs. schema loss occurrence

Come illustrato nel precedente contributo, le polizze D&O sono nate e si sono sviluppate in prima battuta nei paesi anglosassoni, mutuando da tali giurisdizioni il regime di operatività temporale c.d. claims made, che infatti non è disciplinato dalle disposizioni in tema di contratto di assicurazione contenute nel codice civile italiano (artt. 1882 – 1927 c.c.).

Secondo il disposto dell’art. 1917, comma 1, del codice civile, l’operatività temporale della polizza è determinata dalla data di compimento dell’atto illecito da parte dell’assicurato (o, per usare le parole del legislatore, del “fatto accaduto“), a prescindere dal momento in cui è formulata a suo carico la richiesta risarcitoria[1].

Il paradigma di assicurazione sotteso alla clausola claims made si discosta nettamente da tale approccio, in quanto subordina l’operatività della copertura al fatto che durante il periodo di assicurazione il soggetto assicurato riceva, da parte del danneggiato, la prima richiesta risarcitoria.

Derogando quindi all’impostazione codicistica, la copertura claims made o “a richiesta fatta” garantisce all’assicuratore la certezza di non dovere più nulla all’assicurato una volta che il contratto è giunto a scadenza e non sono stati denunciati sinistri.

Infatti, utilizzando lo schema claims made, è facile per l’assicuratore avere contezza pressoché immediata (tenuto conto dei tempi “tecnici” legati alla denuncia di sinistro ex art. 1913 c.c.) dell’esistenza di un sinistro indennizzabile ai sensi di polizza.

Al contrario, lo schema c.d. loss occurrence (o più propriamente act committed) cui è improntato l’art. 1917 c.c. non garantisce tale immediatezza.

(ii) La scansione temporale del sinistro

Per comprendere l’assunto appena enunciato è utile riflettere sulla circostanza che il sinistro si articola in varie fasi, che presentano una scansione temporale di volta in volta diversa a seconda di come si realizza la fattispecie concreta.

Tali fasi possono essere sintetizzate come segue:

  1. condotta colposa imputabile all’assicurato;
  2. accadimento del danno;
  3. manifestazione e conoscibilità all’esterno del danno;
  4. richiesta di risarcimento da parte del danneggiato all’assicurato;
  5. denuncia del sinistro all’assicuratore.

In effetti, tra la fase 1. (rilevante per le polizze emesse in regime loss occurrence) e la fase 4. (rilevante per le polizze emesse in regime claims made) possono intercorrere anni, se non addirittura decenni.

Ad esempio, nell’ambito della R.C. auto tale sfasamento temporale è di norma pressoché nullo: un automobilista causa un incidente stradale (fasi 1. e 2.), arresta il veicolo per verificare quanto accaduto (fasi 3. e 4.), compila il modulo di constatazione amichevole ed entro un paio di giorni lo invia al proprio assicuratore (fase 5.).

In altre situazioni più complesse, invece, le fasi sopra esaminate possono svilupparsi nel corso di alcuni anni.

Proviamo ad immaginare uno scenario nel quale – come spesso è dato di assistere nelle discussioni presso le aule di giustizia – il bilancio di una società risulta positivo per alcuni esercizi (poniamo dal 2010 al 2014) per effetto di artifizi contabili posti in essere dagli amministratori (sopravvalutazione del magazzino, mancato appostamento di un fondo rischi per contenziosi pendenti, mancata svalutazione di crediti non esigibili, ecc.). A causa di una sopravvenuta crisi del settore, ipotizziamo quindi che la società subisca ulteriori perdite e gli amministratori si decidano (ad esempio, nel 2015) a convocare l’assemblea dei soci per i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c. La società presenta domanda di concordato (a fine 2015), che dopo alcuni mesi (nel 2016) viene respinta. Poco tempo dopo (a fine 2016), su istanza di alcuni creditori la società viene dichiarata fallita. Il curatore nominato, presa visione di tutta la documentazione societaria e riclassificati i bilanci, ritiene che il capitale sociale fosse già perso a partire dall’esercizio 2010 e decide quindi (nel 2018) di proporre azione di responsabilità contro amministratori e sindaci. Nello stesso anno (2018) i soggetti evocati in giudizio denunciano il sinistro all’assicuratore che ha stipulato la polizza D&O della società.

Ebbene, la differenza tra i due casi che abbiamo appena descritto nei nostri esempi è palese: se tra la prima e l’ultima fase in cui si articola il sinistro automobilistico trascorrono pochi giorni, nel secondo caso relativo all’illecito societario intercorre un arco temporale di ben 8 anni.

(iii) I c.d. sinistri lungolatenti e la risposta del mercato assicurativo

Esistono tuttavia casi ancora più paradigmatici, e l’industria assicurativa oramai è consapevole del fatto che i rischi possono avere cause remote e che i danni possono manifestarsi a distanza di molti anni, dopo lunga latenza. E’ il caso ad esempio dell’asbestosi, malattia che può insorgere dopo 20 o 30 anni dall’esposizione all’amianto, la cui diffusione negli Stati Uniti ha portato in passato al fallimento di alcune imprese assicurative che non sono state in grado di farsi carico di risarcimenti richiesti lungo tempo dopo la stipulazione delle relative coperture assicurative.

E’ proprio per far fronte a casi di questo tipo (c.d. sinistri lungolatenti o long tail claims) – tipici ad esempio del settore della R.C. sanitaria, della R.C. prodotti e della R.C. inquinamento, dove l’indennizzo viene corrisposto molti anni dopo l’assunzione del relativo rischio – che gli assicuratori hanno introdotto la formula claims made[2].

Tale soluzione consente all’assicuratore di formulare previsioni più attendibili in merito al rischio da assumere, perché quando stipula una polizza (o una determinata categoria di polizze) è in grado di conoscere con maggiore precisione le circostanze che influiscono sul rischio. Questo accade in quanto le fasi 1., 2. e 3. dell’articolazione del sinistro in relazione al quale dovrà eventualmente garantire la copertura assicurativa si sono di norma già verificate al momento della emissione della polizza; inoltre in quello stesso momento l’assicuratore è in possesso di precisi dati statistici relativi a sinistri della stessa tipologia, che lo supportano nella sua analisi del rischio.

Torniamo al caso della società fallita e della successiva azione di responsabilità. In caso di formulazione claims made, l’assicuratore che dovesse emettere all’inizio del 2016 una polizza D&O in favore della società del nostro esempio, sarebbe a conoscenza, da un lato, delle condizioni nelle quali si trova la società al momento della sottoscrizione (sul presupposto della fedele rappresentazione del rischio da parte della stessa società contraente all’atto della compilazione del questionario preassuntivo: cfr. oltre); dall’altro lato, lo stesso assicuratore sarebbe consapevole della sempre maggiore propensione delle curatele ad esercitare azioni di responsabilità (più che mai evidente dopo l’ondata di fallimenti innescata dalla crisi finanziaria del 2008).

Al contrario, gli assicuratori che negli anni ’80 sono stati travolti dalle richieste risarcitorie formulate dalle persone ammalatesi di asbestosi a seguito dell’esposizione alle fibre di amianto, nulla sapevano della consistenza e addirittura della stessa esistenza di tale rischio quando hanno stipulato le relative coperture assicurative in forma loss occurrence, poichè all’epoca non esistevano studi scientifici sulla pericolosità dell’amianto.

(iv) I vantaggi della formula claims made

Le polizze claims made coprono dunque eventi accaduti nel passato (a volte con alcune limitazioni temporali, di cui diremo tra poco) che diventano attuali nel presente, durante la vigenza contrattuale, a fronte delle richieste risarcitorie dei danneggiati. Al contrario, le polizze tradizionali modulate sul regime del loss occurrence coprono eventi che accadranno nel futuro, cioè nel corso del periodo di assicurazione.

Come si è visto, l’assicuratore che offre sul mercato contratti assicurativi nella forma claims made – le quali oggi in ambito R.C. rappresentano lo standard di mercato – è in grado di meglio valutare il rischio. Per compiere tale valutazione ha però necessità di poter contare sulla massima collaborazione da parte del contraente e/o dell’assicurato (collaborazione peraltro imposta per legge dagli artt. 1892 ss. c.c.: cfr. oltre) e quando questa viene a mancare è verosimile che possano sorgere contestazioni sull’operatività della garanzia[3].

Pertanto, il dovere di fedele rappresentazione del rischio si rivela un tema cruciale per le polizze claims made (e in particolare per le polizze D&O), che tratteremo più analiticamente nel paragrafo successivo.

Occorre comunque sottolineare che l’utilizzo della formula claims made comporta vantaggi non solo per l’assicuratore, ma anche per l’assicurato, il quale potrà godere di un massimale e di condizioni contrattuali (si pensi a particolari esclusioni o estensioni di garanzia) parametrate al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto il risarcimento e non al momento in cui l’assicurato ha causato il danno (che, come detto, potrebbe essere risalente nel tempo).

Inoltre, la clausola claims made elimina eventuali incertezze legate all’individuazione dell’assicuratore che dovrà farsi carico del sinistro: infatti, mentre è piuttosto agevole individuare qual è la prima richiesta risarcitoria, non sempre è altrettanto facile stabilire quando un certo illecito è stato commesso.

Si pensi all’esempio precedentemente discusso e alla necessità di stabilire quando gli amministratori della società ipoteticamente fallita avrebbero dovuto adottare i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c.; in questo caso, trattandosi di illecito continuativo, lo stesso ricadrebbe sotto l’ambito di applicazione di diverse polizze emesse in regime di loss occurrence, e questo potrebbe portare anche alla necessità di dover coinvolgere assicuratori diversi, qualora la contraente avesse deciso nel tempo di affidarsi a coperture assicurative offerte da compagnie differenti.

(v) Ulteriori clausole che concorrono a delimitare l’operatività temporale della garanzia

Nell’originaria – e meno sofisticata – formulazione della clausola claims made, questa richiedeva che durante il periodo di assicurazione dovessero verificarsi tutti gli elementi che caratterizzano un sinistro (illecito, danno e manifestazione dello stesso), compresa la richiesta risarcitoria.

Siffatte clausole sono di norma piuttosto penalizzanti per l’assicurato e dunque il mercato ha via via introdotto e offerto condizioni contrattuali migliori, volte a ricomprendere in garanzia anche sinistri per i quali la data di commissione dell’illecito è precedente al periodo di polizza Viene in altri termini stabilita pattiziamente una data di retroattività in modo tale che la garanzia di polizza valga per tutte le richieste risarcitorie formulate nei confronti dell’assicurato nel periodo di vigenza della polizza, a patto che l’illecito sia stato commesso dopo la data di retroattività (vi è comunque da dire che attualmente la maggior parte delle polizze D&O vendute sul mercato italiano prevede una retroattività illimitata).

Per quanto riguarda, poi, l’elemento temporale, la caratteristica comune delle polizze claims made di qualsiasi specie è quella di escludere la garanzia assicurativa c.d. postuma o ultrattiva, relativa alle richieste risarcitorie presentate all’assicurato dopo la scadenza del periodo del contratto assicurativo. Una simile estensione, infatti, equivale ad allungare il periodo di assicurazione, che normalmente è di un anno.

Nel caso delle polizze D&O, al contrario, è spesso prevista la possibilità per gli assicurati di poter usufruire di un periodo di garanzia postuma. Quest’ultima è declinata diversamente a seconda che l’ultrattività sia concessa ai D&O cessati dalla carica durante il periodo di assicurazione (in questa ipotesi la postuma è normalmente di 5 anni e non viene previsto il pagamento di alcun premio aggiuntivo) ovvero valga per tutti gli assicurati (ed allora tale possibilità è concessa quando la contraente non intenda rinnovare polizza a fronte del pagamento di un premio aggiuntivo).

La corretta rappresentazione del rischio assicurato al momento della stipulazione della polizza

(i) Le conseguenze della inesatta o reticente rappresentazione del rischio assicurato

Come accennato in precedenza, il minimo comune denominatore di tutte le clausole di polizza esaminate nel paragrafo precedente, che concorrono a determinare l’operatività temporale della copertura assicurativa[4], è l’esatta rappresentazione del rischio fornita all’assicuratore al momento della sottoscrizione del contratto, ai fini della sua corretta valutazione del rischio stesso.

In effetti, nel momento in cui apprezza l’entità del rischio che si accinge a coprire con la polizza, l’assicuratore deve essere posto nelle condizioni di conoscere tutte le circostanze che contribuiscono a definire la reale consistenza di tale rischio.

A tutela della posizione dell’assicuratore in relazione a tale delicato passaggio, l’art. 1892 c.c. mette a sua disposizione due tipologie di rimedi per il caso in cui le dichiarazioni rese dal contraente al momento della stipulazione del contratto si rivelino inesatte o incomplete.

Nell’ipotesi in cui non si sia ancora avverato alcun sinistro, l’assicuratore che sia venuto a conoscenza di una o più inesattezze e/o reticenze del contraente in merito a circostanze decisive per la corretta rappresentazione del rischio, potrà agire per l’annullamento del contratto se lo stesso contraente ha agito con dolo o con colpa grave, attivandosi in tal senso entro il termine di decadenza di tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto il reale stato delle cose.

Se invece il sinistro si verifica prima che sia decorso tale termine, l’assicuratore potrà usufruire del diverso rimedio consistente nella liberazione dall’obbligo di pagamento del relativo indennizzo.

In base a consolidata giurisprudenza, la reticenza dell’assicurato legittima il ricorso da parte dell’assicuratore ai suddetti rimedi quando sia accertata la presenza di tre condizioni cumulative:

  • che la rappresentazione del rischio da parte dell’assicurato sia inesatta o reticente;
  • che essa sia stata resa con dolo o colpa grave;
  • che la reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore a stipulare il contratto.

Ne consegue che non ogni reticenza si traduce nel diritto dell’assicuratore di annullare la polizza o di rifiutare il pagamento dell’indennizzo, ma solo quella che, ove nota allo stesso assicuratore, lo avrebbe determinato a una diversa decisione in ordine al contratto[5].

(ii) Stipulazione per conto altrui e rappresentazione del rischio nelle polizze D&O

Nell’ipotesi di stipulazione di una polizza D&O, il quadro appena delineato in via generale presenta un elemento di complicazione in più, dal momento che le informazioni relative alla consistenza del rischio vengono solitamente fornite all’assicuratore non dai singoli assicurati, bensì dalla società che contrae la polizza per conto di questi ultimi.

Di consueto, infatti, ad assumere un ruolo attivo nella rappresentazione del rischio oggetto di copertura della polizza D&O è il solo rappresentante della società contraente (in genere, l’amministratore delegato o CEO dell’azienda), il quale tipicamente provvede alla compilazione di un questionario-proposta sottoposto alla contraente dall’assicuratore allo scopo di raccogliere tutte le informazioni ritenute di rilievo in sede assuntiva, nonché alla trasmissione alla compagnia di ulteriore documentazione di dettaglio (ad es., copia degli ultimi bilanci di esercizio), ove richiesta.

Al contrario, tutti gli altri soggetti teoricamente rientranti nel novero delle “persone assicurate” ai sensi di polizza (i.e., gli altri membri del C.d.A., i sindaci, i top managers dell’azienda) non prendono solitamente parte al suddetto processo di rappresentazione del rischio (in effetti molto spesso essi non sono nemmeno a conoscenza della stipulazione della polizza D&O da parte della società).

Di conseguenza, qualora successivamente l’assicuratore contesti alla società contraente di avere reso dichiarazioni inesatte in sede di assunzione del rischio risultate poi determinanti ai fini dell’applicazione dell’art. 1892 c.c., i D&O beneficiari della copertura assicurativa potrebbero obiettare di non essere stati personalmente a conoscenza di tali inesattezze al momento della sottoscrizione della polizza. Essi potrebbero quindi pretendere di essere indennizzati in base alla polizza, in quanto sicuramente inconsapevoli del c.d. “prior knowledge” relativo a circostanze rilevanti ai fini della definizione del rischio, che l’assicuratore ha ipoteticamente accertato in capo al soggetto che ha fornito le informazioni sul rischio stesso.

In realtà le cose non stanno esattamente così, in quanto ai fini del ricorso da parte dell’assicuratore ai rimedi previsti dall’art. 1892 c.c. la circostanza che i singoli assicurati fossero o meno a conoscenza dell’inesattezza delle dichiarazioni o delle reticenze della società contraente all’atto della sottoscrizione della polizza D&O deve ritenersi irrilevante.

In primo luogo, infatti, occorre considerare che la garanzia assicurativa D&O attivata dalla società rientra nello schema della polizza stipulata per conto altrui, in relazione al quale l’art. 1891, comma 3, c.c. dispone, in via generale, che “all’assicurato sono opponibili le eccezioni che si possono opporre al contraente in dipendenza del contratto“.

Inoltre, per quanto più specificamente attiene al tema della corretta rappresentazione del rischio, assume rilievo il disposto del successivo art. 1894 c.c., secondo il quale “nelle assicurazioni in nome o per conto di terzi, se questi hanno conoscenza dell’inesattezza delle dichiarazioni o delle reticenze relative al rischio, si applicano a favore dell’assicuratore le disposizioni degli articoli 1892 e 1893“.

Com’è stato fatto notare da autorevole dottrina, la norma di cui all’art. 1894 c.c. “(…) è una disposizione estensiva” ed “ha la chiara funzione di ostacolare eventuali frodi, o semplicemente anche comportamenti che, sia pure tenuti in buona fede, potrebbero alterare ab origine gli equilibri contrattuali, a tutto danno dell’assicuratore[6]. Essa, infatti, “(…) conforma la disciplina degli artt. 1892 e 1893 (…) alle ipotesi di scissione soggettiva fra contraente ed assicurato (…). In tal modo, all’obbligo di corretta informazione che comunque grava sul contraente – soggetto cui fanno riferimento espresso gli artt. 1892 e 1893 c.c. – si aggiunge omologo obbligo del terzo assicurato, per cui l’assicuratore avrà davanti a sé la scelta di azionare i rimedi che gli sono riconosciuti tanto nei confronti del contraente (ex artt. 1892 e 1893) che del terzo (ex art. 1894)[7].

In definitiva, il legislatore ha evidentemente inteso evitare che l’assicurato, approfittando della circostanza che il contratto è stato concluso da altri (nel caso che ci interessa, dalla società contraente per conto dei suoi D&O), possa sottrarsi all’applicazione degli artt. 1892 e 1893 c.c.[8].

(iii) Il rapporto tra la falsa rappresentazione del rischio e il successivo sinistro

Un ultimo cenno merita la questione della necessità o meno, ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 1892 c.c., dell’esistenza di un preciso nesso di conseguenzialità tra l’incorretta rappresentazione del rischio assicurato da parte del contraente e il verificarsi di un successivo sinistro.

Per comprendere appieno la portata di tale interrogativo ricorriamo ad un nuovo esempio estraneo all’ambito di applicazione delle polizze D&O. Poniamo, cioè, che un assicurato abbia stipulato una polizza contro gli infortuni omettendo volontariamente o con colpa grave, in sede di rappresentazione del rischio, di informare l’assicuratore circa la sua pratica abituale di certe attività pericolose legate ad uno “sport estremo”.

Qualora, durante il periodo di vigenza della polizza, l’assicurato subisca un infortunio fisico proprio mentre è impegnato nella pratica di tale sport, l’assicuratore potrà legittimamente rifiutarsi di corrispondere l’indennizzo, purché sia in grado di dimostrare – tra l’altro – che non avrebbe mai concluso quel contratto (o lo avrebbe concluso a condizioni diverse, ad esempio chiedendo il pagamento di un premio maggiore) se l’assicurato avesse rappresentato correttamente le circostanze di cui si è detto.

Se tale ipotesi non genera incertezze applicative, occorre domandarsi che cosa succede nel diverso caso in cui il successivo sinistro non sia la diretta conseguenza dei fatti taciuti dall’assicurato con dolo o colpa grave.

In merito, l’orientamento giurisprudenziale di gran lunga prevalente è nel senso della non necessarietà – affinché la reticenza dell’assicurato assuma rilevanza ai fini previsti dall’art. 1892 c.c. – dell’accertamento di un rapporto di causa-effetto tra l’incompleta rappresentazione del rischio, che ha viziato in modo determinante il consenso prestato dall’assicuratore, e il sinistro occorso successivamente, in relazione al quale l’assicurato invoca la copertura assicurativa[9].

In particolare, in occasione di numerose pronunce rese in tema di polizze del ramo vita, la Cassazione ha precisato che ad assumere rilievo a fini probatori sarà invece il collegamento oggettivo tra la falsità o lacunosità delle dichiarazioni dell’assicurato e l’alterata percezione da parte dell’assicuratore del rischio dedotto nel contratto (il suo errore, cioè, circa l’effettiva maggiore probabilità del verificarsi del sinistro).

Peraltro, non sussistono motivi ostativi all’estensione di tale principio anche alle ipotesi di applicazione del disposto dell’art. 1892 c.c. a casi in cui ad essere oggetto di disputa sia la garanzia assicurativa astrattamente offerta da una polizza operante nel ramo danni, ivi incluso il caso delle polizze a copertura della responsabilità di amministratori e sindaci.

Pensiamo, ad esempio, all’ipotesi in cui, nel compilare il questionario relativo ad una polizza D&O, la società ometta di riferire la propria intenzione di quotarsi in borsa nei mesi successivi (spesso i questionari relativi alle coperture D&O contengono una specifica domanda in tal senso). La società viene effettivamente ammessa ad uno dei mercati azionari di Borsa Italiana e poco dopo denuncia al proprio assicuratore un sinistro legato alla scoperta di alcuni illeciti commessi dall’amministratore delegato, consistenti nell’aver concluso determinati contratti di fornitura in palese conflitto di interessi.

Ebbene, appare evidente che in questo caso il sinistro non è in alcun modo causalmente connesso alla precedente reticenza della società in tema di quotazione. Tuttavia, la corretta applicazione del principio appena descritto porterà a ritenere irrilevante – ai fini dell’esperibilità da parte dell’assicuratore dei rimedi di cui all’art. 1892 c.c. – la qualificabilità o meno delle circostanze precedentemente taciute dalla società come cause o concause del sinistro che vede coinvolto il suo amministratore delegato.

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[1] L’art. 1917 c.c. prevede che “Nell’assicurazione della responsabilità civile l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. Sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi. L’assicuratore ha facoltà, previa comunicazione all’assicurato, di pagare direttamente al terzo danneggiato l’indennità dovuta, ed è obbligato al pagamento diretto se l’assicurato lo richiede“.

[2] Non vi è dubbio che l’asbestosi sia stata una delle principali cause di quella che è stata definita la liability insurance crisis negli anni ’80, che portò al fallimento di varie compagnie assicurative e all’innalzamento dei premi assicurativi per riequilibrare i conti degli assicuratori che si erano salvati. L’asbestosi non è tuttavia l’unico esempio di sinistro lungolatente.

Un altro caso eclatante fu quello del farmaco DES, un estrogeno sintetico prodotto e commercializzato da in America nel periodo 1940-1970, utilizzato per prevenire le complicazioni della gravidanza. Alla fine degli anni ’70 furono accertati effetti cancerogeni di tale farmaco sulle figlie nate dalle donne che ne avevano fatto uso e nel decennio successivo la Corte Federale americana ritenne solidalmente obbligati a indennizzare il danno tutti gli assicuratori del produttore del farmaco dal 1942 in poi.

La presa di coscienza dell’esistenza di sinistri lungolatenti da parte dell’industria assicurativa determinò l’adozione di differenti trigger di copertura nelle polizze di responsabilità civile. Iniziò così ad affermarsi una tecnica innovativa di delimitazione temporale delle coperture assicurative. Alcuni assicuratori delle Bermude introdussero per la prima volta una garanzia strutturata nella forma claims made, denominata Bermuda form.

Da allora la formula claims made ha soppiantato quasi del tutto, nel ramo R.C., i tradizionali schemi loss occurrence o act committed, pur con qualche contaminazione tra le diverse impostazioni.

[3] La Suprema Corte ha stabilito sul punto che “Nei contratti di assicurazione della responsabilità civile l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto (cosiddetta clausola “claims made”) non fa venire meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento della stipula le parti (e, in specie, l’assicurato) ignoravano l’esistenza di questi fatti, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 cod. civ. per le dichiarazioni inesatte o reticenti” (così Cass. Civ., Sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3622).

[4] Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate nuovamente a pronunciarsi sulla validità delle clausole claims made, hanno preso atto, con la recentissima sentenza n. 22437 del 24 settembre 2018, che l’assicurazione nella forma claims made può essere modellata “secondo varianti peculiari (ad es., la deeming clause e/o la sunset clause) anche tra loro interagenti” così da permettere “una significativa elasticità di adattamento rispetto alla concretezza degli interessi da soddisfare” [su altre recenti prese di posizione della Suprema Corte, cfr. il precedente intervento degli stessi autori: SCAFIDI DIMOLA, La polizza assicurativa D&O come strumento di protezione degli executives (e possibile indicatore di qualità della corporate governance?), su questa rivista, n. 35/2018].

Per inciso, si rileva che con questa ultima pronuncia le Sezioni Unite hanno ribadito la validità delle polizze formulate secondo la claims made rule, osservando che “Il modello dell’assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claim made basis”, che è volto ad indennizzare il rischio dell’impoverimento del patrimonio dell’assicurato pur sempre a seguito di un sinistro, inteso come accadimento materiale, è partecipe del tipo dell’assicurazione contro i danni, quale deroga consentita al primo comma dell’articolo 1917 c.c., non incidendo sulla funzione assicurativa il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore“. Le Sezioni Unite hanno peraltro condotto un’attenta disamina della normativa in materia di adeguatezza dei prodotti assicurativi, pronunciandosi anche sulle conseguenze civilistiche in caso di distribuzione di prodotti inadeguati.

[5] Il successivo art. 1893 c.c. disciplina invece il diverso caso in cui l’assicurato abbia fornito all’assicuratore una rappresentazione non veritiera della situazione di rischio da assicurare, agendo tuttavia senza dolo né colpa grave. Proprio perché l’ipotesi è di minore gravità rispetto a quella prevista dall’art. 1892 c.c., la legge non prevede il rimedio dell’annullamento della polizza, ma riconosce all’assicuratore la facoltà di recedere dal contratto. Allo stesso tempo, se il sinistro si verifica prima che l’assicuratore abbia avuto contezza della reticenza (o prima del decorso dei tre mesi per il recesso), l’indennizzo dovrà comunque essere corrisposto ma è ridotto in misura proporzionale rispetto alla differenza tra il premio percepito e quello che l’assicuratore avrebbe preteso se avesse conosciuto il reale stato del rischio.

[6] MERZ, Manuale pratico dell’assicurazione della responsabilità civile, Padova, 2003, p. 41.

[7] VOLPE PUTZOLU, Commentario breve al diritto delle assicurazioni, Padova, 2013, p. 34. In altre parole, tale disposizione va correttamente interpretata nel senso che, “se si può parlare di inesattezze o reticenze del contraente, ci saranno i rimedi degli artt. 1892-1893 e di questi ne risentirà anche il beneficiario (…). Cioè, il senso della norma è quello di estendere al beneficiario l’obbligo di informazione, non quello di aggiungere al presupposto dei predetti articoli il requisito della conoscenza da parte del beneficiario delle inesattezze e reticenze di cui trattasi” (CIAN TRABUCCHI, Commentario breve al codice civile, Padova, sub art. 1894 c.c.).

[8] Per interessanti declinazioni di questi principi in giurisprudenza, cfr. Trib. Monza, 1 dicembre 2004; App. Milano, 12 luglio 2011.

[9] Così da ultimo Cass. 4 agosto 2017, ord. n. 19520. Nello stesso senso, Cass. 11 gennaio 1962, n. 23; Cass. 12 novembre 1985, n. 5519; Cass. 9 febbraio 1987, n. 1373; Cass. 25 maggio 1994, n. 5115; Cass. 28 giugno 2005, n. 13918; Cass. 11 giugno 2010, n. 14069; Cass. 31 luglio 2015, n. 16284; conformi nel merito, tra le altre, Trib. Roma 26 maggio 2008; Trib. Bari 16 gennaio 2014. Tale assunto era stato revocato in dubbio da certa giurisprudenza di merito in materia di assicurazioni infortuni e malattie, secondo la quale le dichiarazioni inesatte o reticenti dell’assicurato in sede di conclusione del contratto potrebbero essere fatte valere dall’assicuratore ai fini dei rimedi previsti dall’art. 1892 c.c. soltanto allorché, oltre alla loro influenza sulla rappresentazione del rischio, sia dimostrabile anche “un effettivo collegamento oggettivo tra la situazione celata ed il sinistro concretamente verificatosi” (così Trib. Torino, 17 giugno 1995; conf. Trib. Torino, 25 novembre 1995; nella giurisprudenza di legittimità, risulta in linea con quest’ultima posizione solo la risalente Cass. 11 ottobre 1956, n. 3514; in dottrina, cfr. VISINTINI, La reticenza nel contratto di assicurazione, in Riv. Dir. Civ., 1971, I, 422).

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