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Purposeful Company e ESG: una riflessione per l’executive compensation

Siamo al centro di una tempesta perfetta. L’ingresso delle valutazioni di investimento ESG, il movimento Beyond Profit, la vocazione di molte aziende a porre il Purpose al centro della riscoperta della propria identità, l’impegno formale di alcune

di Sandro Catani (*) e Francesco Guidara (**)

  

Siamo al centro di una tempesta perfetta. L’ingresso delle valutazioni di investimento ESG, il movimento Beyond Profit, la vocazione di molte aziende a porre il Purpose al centro della riscoperta della propria identità, l’impegno formale di alcune industry verso la difesa della Sostenibilità,stanno ridefinendo l’arena di gioco dei prossimi anni.

L’idea di un’organizzazione basata sulla teoria dello shareholder value, che ha prevalso negli ultimi 30 anni, lascia così il passo a quella di un’impresa sempre più spesso guidata dal Purpose, con una maggiore consapevolezza della sua relazione – anche critica – nei confronti degli stakeholder interni ed esterni.

Un salto di paradigma per l’effetto congiunto di varie forze, non ultime le nuove regolamentazioni e la volontà, da parte di molti CEO, di assumere un ruolo “più politico” in un’epoca di poteri deboli o “quasi del tutto assenti”, come ha scritto Moises Naim nel saggio “The End of Power”.

Un movimento orizzontale che tuttavia differisce nelle varie geografie: in Europa è prevalente la guida della regolamentazione (le norme della DNF o della più recente SHDR II) e i principi dei codici di autodisciplina; mentre in America il cambiamento è stimolato dalle prese di posizione dei CEO della Business Roundtable. Ancora prima di Bill Gates, Marc Benioff di Saleforce o Lynn Forester de Rothschild con il suo Inclusive Capitalism, preoccupati per le contraddizioni del modello capitalistico: crescente disuguaglianza, impatto sul clima, sempre più bassa partecipazione al lavoro. Un cambiamento che avviene sotto lo sguardo attento delle business school, dei grandi studi legali, delle società di consulenza fino ai potenti proxy advisor.

Se la teoria dell’agenzia si fondava su un manager ottimizzatore e razionale, fiduciario dell’azionista, l’impresa purposeful chiede al management di interpretare un differente ruolo di steward di interessi compositi, partendo da una domanda tanto semplice nella formulazione quanto complessa nella risposta: “perché esisto?”.

Sullo sfondo si allunga l’ombra di un modello di remunerazione che non potrà limitarsi a minime modifiche dell’attuale e dovrà ripensare la filosofia rispetto al nuovo contesto. Una balanced score card che combini gli indicatori di Economic Sustainable Performance con quelli Environmental, Social, Governance, in un pensiero strategico di lungo termine.

Un acronimo da formalizzare e mettere al lavoro

Investitori influenti e policy maker stanno sostenendo in misura incrementale i fattori ESG come un tema critico per il business. Nella ormai celebre Lettera agli Investitori, Larry Fink, ceo di BlackRock invia un segnale di rottura alla business community: “i problemi Environmental, Social e di Governance saranno rilevanti per la valutazione di un’impresa, alla luce dei cambiamenti nella ricchezza e nelle preferenze sull’investimento”. Ed ancora: “senza darsi un serio impegno in chiave Purpose un’azienda rischia di rimanere al di fuori delle nostre scelte di portafoglio”. Secondo la Mercer Asset Allocation Survey 2019, il 55% dei manager ha dichiarato di prendere in considerazione i fattori ESG nel processo di investimento, mentre nel 2018 la percentuale si fermava al 40%. Dalla “E” che comprende rischi quali le emissioni di CO2, l’inquinamento dell’acqua e la deforestazione, alla “S” che include le politiche di genere e delle diversità in generale, i diritti umani, gli standard lavorativi.

Ed infine la “G” che fotografa le politiche di retribuzione dei manager, la composizione del consiglio, le procedure di controllo, i comportamenti etici dei vertici.

Così l’acronimo è diventato probabilmente la più vivida rappresentazione della Sostenibilità. Tuttavia non essendo definito in modo univoco, partecipa all’alone di green washing di cui è sospettata a tratti la categoria madre. Infatti, ciò che colpisce, e in parte preoccupa, è l’abbondanza di modelli quando si parla di Sostenibilità: GRI, IIRC, RAFI, FASB, per citare i più diffusi. Come capita nel momento in cui una disruption si affaccia sui mercati, i framework di principi e di standard appaiono eterogenei e non capaci di favorire un’armonizzazione dei comportamenti. Una recente indagine di State Street Global Advisors tra più di 300 investitori istituzionali a livello globale, conferma l’evidenza: il 44% imputa alla mancanza di dati affidabili e coerenti le incertezze all’adozione di politiche ESG.

Performance e Remunerazione

Il legame tra la performance dell’impresa e l’executive compensation è al cuore della teoria dell’impresa. Ha ispirato il sistema di incentivazione annuale legato al budget e quelli a più lungo termine basati sugli strumenti finanziari. Nel 2018 le aziende FTSE Mib offrivano ai manager un incentivo legato a indicatori economico-finanziari. I più frequenti, l’EBITDA, il Free Cash-Flow, il Roace, nel sistema di breve, mentre tra quelli di lungo periodo spiccava il TSR relativo. Solo in anni più recenti, per il crescente interesse degli investitori, si è assistito a una nuova tendenza per includere la performance ESG nella formula per la remunerazione. Boston Consulting Group ha suggerito recentemente una metodologia per misurare l’applicazione del Purpose all’interno dell’azienda, attraverso un profonda fase di ascolto che prende in esame 15 indicatori e lega l’andamento del TSR al suo roll-out.

Una riflessione per un Compensation Sostenibile

In realtà la pubblica opinione, i mass media e i policy maker sono più sensibili ai livelli di remunerazione del management e al cosiddetto pay ratio, la distanza retributiva tra il CEO e il lavoratore medio. Il fenomeno resta critico negli Stati Uniti: nonostante la trasparenza richiesta dalla SEC, permangono punte strabilianti sino a 3.500 volte in numerose aziende. Peraltro in Italia non è superato il pur rispettabile rapporto di 50 volte. Ma i pay ratio elevati, appaiono più legati al problema, diverso, della disuguaglianza sociale che non al comportamento dell’impresa verso gli obiettivi di sostenibilità.

Si spiega così l’attrazione dei KPI ESG sul tema dell’Executive Remuneration per il tavolo dei Board, e le evidenze di recenti survey Mercer, in Nord America, UK, Nordics e Italia, lo confermano. Oltre il 50% delle imprese intervistate ha introdotto o sta per introdurre, le nuove metriche, sia pure concentrate nei settori dell’energia e delle utilities, con prevalenza nell’ incentivazione a breve termine e con un peso modesto dei parametri addizionali. Risultati che confermano il trend e al contempo i limiti di un approccio operativo. La pressione degli investitori e il contagio culturale indurrà un numero crescente di Board a imboccare una strada diversa, più strategica. Un caso interessante è l’industria dell’abbigliamento, la seconda a livello mondiale per il tasso di inquinamento ambientale, accentuato negli ultimi anni dal fast fashion, che è entrata nel mirino dei policy maker dei consumatori e degli stessi consumatori. Il settore ha provato a correre ai ripari: François-Henri Pinault, numero uno del colosso Kering, su mandato del presidente francese Emmanuel Macron, ha ispirato il Fashion Pact. 56 imprese leader del lusso, tra cui le italiane Moncler, Ferragamo, Zegna, si sono impegnate a raggiungere obiettivi condivisi in difesa di Clima, Biodiversità e Oceani.

Per queste riflessioni, ci appare inevitabile che nel prossimo futuro i Consigli di Amministrazione e i Comitati Endoconsiliari, ripensino le stesse fondamenta della remunerazione: gli indicatori e il loro peso in una balance scorecard olistica, i veicoli con cui pagare l’eventuale compenso; infine, non ultimo, i tempi con cui il management potrà riscuotere il premio.
A questo riguardo The Purposeful Company, un autorevole think thank inglese, ha proposto le deferred share, alternative ai tradizionali LTIP, complessi e sospetti di orientare i manager al breve termine. Un veicolo che tende a dilata i tempi con cui il management potrà riscuotere il premio, e accentua il differimento già contenuto nei Codici di Autodisciplina, praticato per obbligo nel settore finanziario.

Accanto alla ri-progettazione tecnica rimane, tema centrale, l’evoluzione del diritto societario italiano ancora sostanzialmente orientato allo shareholder value, a differenza di quanto accaduto in UK o in Francia. Il modello di remunerazione potrà allora, in termini più sicuri per gli attori, modificare il tradizionale incipit dei piani di incentivazione, “allineare gli interessi del management con l’interesse degli azionisti”, articolando i portatori di interesse rilevanti di quella impresa e l’equilibrio tra i diversi, e forse, conflittuali interessi.

Nonostante questa incertezza, appare il solo modo per disegnare il profilo delle future aziende che saranno in grado di guidare i mercati, imporre con autenticità la propria scala di valori e coinvolgere – con eguale entusiasmo – dipendenti, clienti, azionisti e società nel suo complesso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

(*) Sandro Catani – Director di Mercer Italia; Presidente del Collegio dei saggi di Ned. Ricopre ruoli diversi nei Comitati per la remunerazione di Messaggerie Italiane, e-Novia, Cantine Ferrari-Lunelli. Assiste i CdA delle società quotate e la proprietà delle imprese famigliari sui temi del capitale umano e dell’executive remuneration.

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(**) Francesco Guidara -Dal 2013 è marketing e Business Development Director per BCG Italia, Grecia, Turchia e Israele. E’ Professore a contratto, in “Disclosure Governance and Capital Markets” all’Università La Sapienza di Roma. In precedenza è stato caporedattore di CNBC e responsabile delle Corporate TV del gruppo Class.

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