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Per combattere la misconduct ci vuole la buona governance

Secondo un articolo apparso qualche tempo fa sul Journal of Financial Economics, un’importante rivista scientifica, le imprese che operano in un contesto più orientato alla corruzione sviluppano più facilmente comportamenti opportunistici ed una vera e

di Alessandro Carretta (*)

Secondo un articolo apparso qualche tempo fa sul Journal of Financial Economics, un’importante rivista scientifica, le imprese che operano in un contesto più orientato alla corruzione sviluppano più facilmente comportamenti opportunistici ed una vera e propria misconduct, che si manifesta ad esempio attraverso manipolazione dei profitti, frodi contabili, insider trading. Ancora, sulla rivista Nature sono apparsi i risultati di un esperimento di economia comportamentale, rivolto a oltre 2.500 partecipanti di 23 paesi, che avvalora l’ipotesi che l’onestà individuale sia correlata con il contesto ambientale nel quale le persone si trovano ad operare. In altre parole, nei paesi che hanno un “tasso di disonestà” più elevato (ad esempio misurato dalla diffusione di fenomeni di corruzione), le persone tendono a mentire in misura significativamente più elevata.

Il collegamento tra caratteristiche della cultura nazionale ed aziendale e comportamenti individuali è al centro dell’importante documento del Financial Stability Board (FSB), dedicato a “Strengthening Governance Frameworks to mitigate Misconduct Risk: a toolkit for Firms and supervisors” e pubblicato il 20 aprile 2018.

Come ha ricordato Visco alla lezione Giorgio Ambrosoli 2016 su “Società civile economia e rischio criminalità”, le banche e gli operatori finanziari sono probabilmente più vulnerabili delle imprese non finanziarie all’affermarsi di comportamenti scorretti, che, specie nei periodi di crisi, possono sconfinare nell’illecito. Ciò può dipendere dal fatto che le banche operano con una leva finanziaria molto più elevata di quella delle altre imprese, hanno attività in bilancio più difficilmente valutabili da parte di soggetti esterni, raccolgono fondi da creditori molto frazionati e spesso inconsapevoli. Tutto ciò può indebolire i meccanismi di controllo societario, amplificando i problemi connessi con le asimmetrie informative, e rendere più difficile conciliare obiettivi contrastanti.

Il FSB aveva già affrontato il tema della misconduct, con riferimento alle istituzioni finanziarie, in diverse occasioni, sia in modo diretto (si vedano i risultati del gruppo di lavoro su Governance framewoks e in particolare il documento del 23 maggio 2017) sia in modo indiretto, trattando i temi connessi alle politiche di remunerazione ed incentivazione (ad esempio, si veda il quarto progress report del 10 novembre 2015), ma nel documento del 2018 l’influenza della cultura organizzativa sui comportamenti individuali appare molto evidente ed alla base delle raccomandazioni ivi formulate.

Secondo l’Autorità Bancaria Europea, il rischio di misconduct (comunemente definito conduct risk) è il rischio corrente o prospettico di perdite in capo ad un’istituzione causate da un’offerta inappropriata di servizi finanziari, compresi i casi di condotta negligente o dolosa. Una diffusa misconduct nel settore finanziario crea sfiducia, indebolisce la capacità dei mercati di allocare le risorse finanziarie all’economia reale e può generare rischio sistemico, spiegando così l’interesse del FSB al tema. Tra i casi più noti, ricordiamo la manipolazione del Libor e di alcuni mercati all’ingrosso (tra cui la vicenda della London Whale con le perdite causate a J.P. Morgan) e le pratiche di misselling sui mercati del retail banking, con particolare riferimento allo scandalo dei conti correnti fasulli di Wells Fargo, alle violazioni commesse da Deutsche Bank nella vendita di strumenti finanziari agli investitori ed alle polizze assicurative impropriamente vendute nel Regno Unito ai prenditori di mutui. Negli ultimi dieci anni, le sanzioni e le spese legali connesse alla misconduct delle istituzioni finanziarie hanno superato i 320 miliardi di dollari, ma la stima non considera i costi indiretti e soprattutto gli effetti sulla reputazione dei sistemi finanziari, indubbiamente molto ampi. In ogni caso, secondo quanto ha affermato Mark Carney, Presidente del FSB, in una comunicazione ai leaders del G20, se le risorse suddette fossero state destinate a capitale, esse avrebbero consentito di erogare ad imprese e famiglie prestiti addizionali per 5.000 miliardi di dollari. In ambito europeo, limitandosi ai risultati dello stress test (scenario avverso) 2016 riferiti agli ultimi due anni, il rischio di misconduct, che costituisce la parte preponderante dei rischi operativi, produrrebbe una riduzione dei livelli di capitale (CET1) pari ad oltre 70 miliardi di euro.

Ma bastano multe e sanzioni? Certamente esse costituiscono un deterrente, ma occorre considerare che vengono più frequentemente comminate alle aziende piuttosto che alle persone e che sortiscono effetti, in ultima istanza, per gli azionisti e la clientela delle istituzioni finanziarie, riducendo la creazione di valore per queste ultime. Secondo il FSB è indispensabile porre in essere approcci preventivi che influenzino i comportamenti delle persone, riducendo il rischio di misconduct. Tra questi approcci assume particolare rilievo il miglioramento delle pratiche di corporate governance.

Il FSB si rende conto che è compito delle istituzioni finanziarie e delle autorità sovranazionali e nazionali individuare i percorsi migliori per affrontare i problemi della misconduct nei rispettivi contesti e dunque non fornisce uno standard internazionale oppure un approccio prescrittivo, bensì una “scatola degli attrezzi”, basata sulle esperienze e sulle pratiche già posto in essere nei vari paesi, attraverso un approccio ampio e multiforme.

Gli scomparti del toolkit del FSB sono ben 19. Riguardano sia le banche e gli intermediari finanziari sia le autorità e concernono l’esigenza di neutralizzare per quanto possibile le determinanti della misconduct (tool da 1 a 7), di rafforzare le responsabilità individuali (tool da 8 a 12), di affrontare il fenomeno delle “rolling bad apples” (tool da 13 a 19).

Su primo fronte si consolida l’idea, già presente negli organismi di regolamentazione e supervisione, che i vertici aziendali debbano consolidare una cultura aziendale positiva che riduca i rischi della misconduct, identificando ed esplicitando i comportamenti a livello individuale che ne ostacolano la diffusione. Ambiziose anche le indicazioni per le autorità, che dovrebbero prevedere programmi di supervisione focalizzati sulla cultura al fine di mitigare i rischi di misconduct, utilizzare anche in questo ambito approcci risk based, raccogliendo le informazioni necessarie ed impegnando le istituzioni vigilate al rispetto di indicazioni provenienti dalle autorità sul tema delle reazioni alla misconduct.

Sul secondo fronte si pone l’accento sull’identificazione delle responsabilità individuali relativamente anche al rischio di misconduct e sulla prospettiva di un assessment dell’adeguatezza delle persone al riguardo. Per le autorità si aggiungono anche raccomandazioni in ordine allo sviluppo di un framework per il monitoraggio di tali responsabilità.

Sul terzo fronte, quello delle “rolling bad apples”, che riguarda in particolare la riproposizione in differenti realtà aziendali di persone con storie conclamate di misconduct (anche se qualcuno di questi, come il trader Nick Leeson che ha causato il collasso vent’anni fa della Barings Bank, ha fondato, una volta uscito di prigione, una società di consulenza – la Risk team – che aiuta le aziende a prevenire eventi del genere) le banche devono mettere a punto procedure di reclutamento molto articolate ed orientate a valutare i rischi di comportamenti inadeguati, rinnovando periodicamente il monitoraggio per cogliere episodi di misconduct o comunque indizi di anomalie, mentre le autorità dovrebbero includere nella supervisione indagini sulle pratiche di assunzione e sui meccanismi sanzionatori, stimolando anche lo scambio di informazioni tra le diverse istituzioni finanziarie. Su questo tema il documento del FSB presenta anche un’interessante documentazione relativa alle esperienze di alcuni paesi, che sia pure con alcune differenze di rilievo che riguardano le caratteristiche di fondo delle diverse legislazioni (prima di tutto quella sul lavoro e sulla privacy), possono essere un buon elemento di riflessione più generale.

In ogni caso, non è immaginabile ricondurre solamente alla chiave interpretativa delle “bad apples” presenti in banca la responsabilità di determinati comportamenti, che riflettono una cultura del rischio inadeguata a livello personale. Come è evidente proprio dal documento del FSB, i comportamenti non compliants non scaturiscono infatti da un’inadeguata “integrità individuale o dalla naturale” propensione delle persone ad azioni scorrette, ma dall’influenza di fattori esogeni, ambientali e aziendali, che alterano una corretta conversione dei valori individuali in atteggiamenti e azioni, in altre parole appunto da una cultura aziendale non soddisfacente. Peter Drucker, uno dei padri della moderna scienza del management, soleva affermare che “culture eats strategy for breakfast”.

Su questo bisogna lavorare. La Financial Conduct Authority (FCA) inglese ha da poco (marzo 2018) pubblicato un documento di discussione sul tema della trasformazione della cultura nell’industria dei servizi finanziari, nella consapevolezza, già diffusa da tempo in letteratura (si veda ad esempio il lavoro di Carretta, Fiordelisi, Schwizer, “Risk culture in banking”, 2017, segnalato in questo numero della rivista), che gli standard di capitale e le regole non bastano e che occorra appunto sviluppare nel sistema finanziario una sana e robusta cultura, che orienti in modo adeguato i comportamenti delle persone.

Ma come coltivare, proteggere e diffondere una cultura davvero “nuova” oggi in banca? La teoria e le esperienze di altri settori segnalano con forza tre punti fermi:

  • 1 – Cambiare la cultura di un’organizzazione complessa come la banca è possibile ma difficile e richiede consapevolezza della necessità del cambiamento, tempi lunghi e risorse ingenti, tenendo anche conto del fatto che le relazioni tra azioni del management e cultura non sono necessariamente lineari;

  • 2 – Perché il cambiamento sia possibile occorre un approccio sistemico, che riguardi tutti i soggetti coinvolti;

  • 3 – Perché la nuova cultura abbia successo è indispensabile che essa non sia solamente una cultura del “dover essere onesti” – approccio giudicato assolutamente “non sexy” dalla maggior parte dei commentatori – bensì che essa sia “conveniente”, crei cioè davvero valore per tutti questi soggetti, istituzioni e persone, che fra l’altro presentano presumibilmente schede motivazionali, in grado di spiegare i rispettivi comportamenti, assai varie e non necessariamente convergenti.

La valutazione del grado di adeguatezza della cultura corrente del rischio della banca e la percezione della distanza rispetto a una cultura ritenuta coerente con il contesto, gli indirizzi strategici, il modello di business, le esigenze di governo, costituiscono un esercizio affidato a ciascuna banca, sulla base delle proprie caratteristiche. Allo stato attuale non sembra peraltro esserci dubbio sul fatto che l’attuale cultura del rischio delle banche si è rivelata di fatto inadeguata e che occorre muoversi lungo un percorso che metta in evidenza la necessità di “passare da forma a sostanza” e quindi dall’idea che, sul fronte della gestione del rischio, “ho fatto quello che le norme chiedono” e cioè quanto prescritto, a quella che “ho fatto il necessario per prevenire e correggere”, e cioè ho fatto quanto serve.

Come segnala Deutsche Bank nel proprio Corporate Responsibility Report “we are all risk managers” (dal nome della loro campagna di intervento sui comportamenti dei dipendenti). E in ogni caso gli addetti alla compliance e i risk managers devono lavorare a stretto contatto con gli uomini di business per costruire relazioni che siano di fiducia e rispetto reciproco e di condivisione dei rispettivi interessi.

Il Banking Standards Board, un organismo privato promosso da un gruppo di importanti banche e società finanziarie operanti nel mercato UK, ha condotto nel 2017 una survey relativa ai comportamenti, alle competenze ed alla cultura delle persone che lavorano nel sistema finanziario inglese, che ha coinvolto ben 36.000 soggetti, con approfondimenti in gruppi di discussione per 750 di questi. Tra i principali risultati:

  • le persone sono più propense a credere che le proprie organizzazioni mettono in pratica valori positivi se osservano tali comportamenti nei propri capi e se davvero vedono che le aziende agiscono negli interessi dei propri stakeholders (clienti prima di tutto);

  • la percezione di essere trattati in modo corretto dalle proprie aziende è strettamente correlata alle aree di rispetto individuale ed al benessere percepito nella propria situazione lavorativa;

  • l’impressione che l’azienda non si attivi, a fronte di segnalazione di comportamenti scorretti messi in evidenza dal personale, costituisce un forte ostacolo a segnalare, più ancora del timore di conseguenze negative nei propri confronti.

Nell’ormai famoso (visibile su YouTube) interrogatorio del banchiere John Stumpf da parte di Elizabeth Warren, la senatrice americana sintetizza così il comportamento del ceo di Wells Fargo, protagonista dello scandalo della indebita azione di cross selling sui conti della clientela della banca: “Lei non si è dimesso; non ha restituito neanche in minima parte il suo bonus personale, che è aumentato di 200 milioni di dollari a seguito del comportamento inappropriato della banca; non ha licenziato neppure uno dei dirigenti coinvolti dallo scandalo. La sua è stata una leadership debole (in verità il termine gutless si traduce di solito in modo più crudo…) …. Tutto ciò non è dovuto al comportamento di oltre 5.000 mele marce (gli addetti alle vendite della banca coinvolti) bensì ad un contesto, creato da Lei e dal top management, caratterizzato da una cultura dell’inganno”.

I soggetti coinvolti da un processo di cambiamento culturale finalizzato a ridurre il conduct risk sono tanti. Azionisti delle banche, management, personale bancario, parlamento, governo, magistratura, autorità di controllo, organi d’informazione, sistema educativo, clientela, tutti hanno a mio parere contribuito, con responsabilità o negligenze grandi o piccole, a determinare la situazione di cui oggi tutti si lamentano e sarebbe facile dimostrarlo. Ma quello che oggi importa è che solo uno sforzo corale e coordinato di tutti questi soggetti per avviare un percorso che porti a una nuova cultura della banca (così come della clientela e degli organi di controllo) può avere successo. In ogni caso le banche devono essere protagoniste, e non spettatrici, di questo rinnovamento culturale, che le riguarda direttamente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

(*) Alessandro Carretta, membro del Comitato Scientifico di Nedcommunity e del Comitato Editoriale della Rivista ([email protected]).


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