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Le incertezze della ripresa

Le incognite della pandemia rendono difficili previsioni per il 2021. Sarà comunque un anno di ripresa, anche grazie al Recovery Fund, con tassi di interessi vicino allo zero e bassa inflazione, ma con debiti pubblici in rialzo

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Come andrà l’economia nel 2021? Dopo il crollo del Pil della prima parte del 2020 in quasi tutti i Paesi, mai visto in periodi di pace, la fase immediatamente successiva al lockdown è stata robusta, con un aumento record del PIL nel terzo trimestre 2020. A causa della seconda ondata della pandemia, però, nel quarto trimestre la crescita è tornata a rallentare notevolmente, anche se meno che nel secondo. A livello globale, nel 2021 ci si attende una crescita del Pil attorno al 5%, dopo un calo atteso di oltre il 4% nel 2020 (nella recessione del 2009 il calo era stato solo dell’1,4%).

I differenziali tra i diversi Paesi rimangono estremamente elevati in funzione sia di un impatto eterogeneo della pandemia, sia delle differenti risposte delle autorità di politica fiscale e monetaria (si veda la tabella).

La Cina è l’unico tra i principali Paesi per il quale già per il 2020 si stima una crescita economica positiva. Questo, a fronte di un rilevante declino per tutti gli altri: Ue – 8%, Stati Uniti – 4%, Italia e Francia circa – 10%. Nel quinquennio 2021 – 2025, la crescita economica riprenderà ma su livelli inferiori a quelli previsti prima della pandemia globale a causa, tra gli altri, di effetti negativi di lungo periodo sul mercato del lavoro, sulla produttività e sull’accumulazione di capitale.

Certezze e incertezze

Per quanto questo scenario si presenti per ora come il più probabile, le incertezze rimangono relativamente elevate, soprattutto in funzione dell’andamento dell’epidemia. Alcune caratteristiche di fondo, tra loro interconnesse, dovrebbero però restare sostanzialmente invariate: bassi tassi di interesse e bassa inflazione accompagnati da un aumento vertiginoso dei debiti pubblici. I tassi rimarranno bassi perché l’inflazione rimarrà al di sotto dei target delle banche centrali. Inoltre, sebbene le banche centrali rimangano formalmente indipendenti rispetto alle autorità governative, in questa crisi si è visto un maggiore coordinamento tra politiche monetarie e politiche fiscali. Questo indubbiamente aiuta i Paesi con un alto debito pubblico (per esempio l’Italia) a mantenere il servizio del debito attorno a livelli sostenibili e a mantenere politiche fiscali espansive anche nei prossimi anni.

In un contesto di calo dell’attività economica e di forti stimoli di politica di bilancio, l’aumento dei debiti pubblici avrà una dinamica molto simile in tutti i Paesi delle economie avanzate. Gli Stati Uniti, i principali Paesi dell’eurozona (esclusa la Germania), il Giappone e il Regno Unito registreranno tutti un aumento del rapporto debito/Pil nel 2020 di circa 20-30 punti percentuali rispetto al 2019.

Inoltre, i piani di rientro da questi alti livelli del debito saranno molto graduali e si distenderanno su un lasso di tempo relativamente lungo, anche allo scopo di scongiurare possibili crisi finanziarie legate al debito. Ciò potrà consentire di applicare una politica monetaria accomodante che, in un contesto di bassa inflazione, sarà ancora orientata a mantenere bassi tassi d’interesse. E questi a loro volta faranno sì che il servizio del debito possa rimanere su livelli sostenibili e a evitare, anche per i Paesi ad alto debito come l’Italia, l’implementazione eccessivamente rapida di politiche restrittive.

L’Italia in Europa

In Italia il debito pubblico salirà oltre il 160% del Pil, uno dei più alti al mondo. Sebbene sicuramente problematico, rimarrà sostenibile (almeno nei prossimi due anni) grazie al basso costo del servizio del debito. I pagamenti dell’Italia sul debito pubblico sono stati pari al 3,5% del Pil nel 2019. L’aumento provocato dalla risposta fiscale alla recessione del coronavirus porterà il debito a quasi il 4% del Pil dal 2020, un terzo rispetto alla media, superiore al 10%, degli anni ’90. Il che non implica che il livello del debito sia irrilevante, ma solo che bassi tassi di interesse contribuiranno a evitare una crisi debitoria dell’Italia nel breve termine.

A causa soprattutto delle basse spinte inflattive e del rallentamento della crescita economica, nei prossimi anni le autorità monetarie dei Paesi avanzati terranno i tassi di interesse vicino al margine inferiore. Nello scenario di consenso, infatti, si prevede il primo aumento del tasso di deposito della BCE nel 2024, con un ritorno a tassi positivi sui depositi solo nel 2026. Analogamente per gli Stati Uniti, dove il tasso della banca centrale dovrebbe permanere ai valori attuali per i prossimi 5 anni.

Per quanto riguarda, infine, l’Unione europea, va sottolineato che le risposte delle autorità economiche sono state per ora molto efficaci nell’evitare che la crisi economica diventasse anche una crisi di debito e finanziaria per i Paesi con le finanze pubbliche meno solide, come quelli dell’Europa del sud. Inoltre, la risposta monetaria e fiscale dell’Ue a questa crisi è stata molto tempestiva e molto più forte rispetto alle precedenti emergenze, lasciando pensare che nei prossimi anni sarà possibile un’ulteriore graduale integrazione, invece di quella tendenziale disintegrazione che si poteva temere fino a non molto tempo fa.

Va dunque accolta molto positivamente la creazione del Recovery Fund. Anche se le dimensioni del fondo non sono tuttora sufficientemente grandi per cambiare sostanzialmente le prospettive di crescita, l’emissione comune di un debito a livello europeo è un passo storico e rappresenta un cambiamento fondamentale delle modalità in cui si sono finora affrontate le crisi. Anche se il piano è inteso come una misura una tantum, stabilisce un precedente verso un’eventuale, quanto necessaria, ulteriore integrazione fiscale, aspetto finora mancante, che rappresenterà un tassello importantissimo per la struttura dell’Eurozona.

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