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La divulgazione delle remunerazioni: un confronto internazionale

È possibile distinguere due tipi di universi: un mondo, chiamiamolo anglo-europeo, e uno asiatico o orientale, dalle forti differenze

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Per tutte le aziende quello di divulgare le remunerazioni pagate e le politiche per definirle è un argomento delicato, in cui obiettivi di gestione al meglio del personale, di cura per investitori e stakeholders e comprensibili esigenze di riservatezza convergono in modo contrastante.

La divulgazione di queste informazioni rappresenta quindi un esercizio di composizione di diverse pressioni, in cui entra anche in gioco l’esigenza di un level playing field tra aziende concorrenti, cosa che è in felice accordo con l’esigenza da parte degli investitori di poter contare su informazioni il più possibile standardizzate che aiutino nelle scelte dei portafogli. Per questo motivo vi sono numerosi sforzi a diversi livelli, dall’internazionale al nazionale, per stabilire standard per la presentazione di queste informazioni. Essi prendono diverse forme: dalle raccomandazioni, ai codici sottoscrivibili volontariamente, alle norme con valore di legge. È una materia in continua evoluzione, spesso inseguendo argomenti di moda.

Quanto maggiore è l’adesione da parte delle diverse aziende alle linee guida internazionali, più simile è la disclosure di informazioni sulle remunerazioni, ma il fatto che nella pratica si riscontrino importanti differenze indica che vi è ancora cammino da fare se si vuole arrivare a definire un compromesso ottimale tra le diverse esigenze sopra menzionate. Le differenze non sono troppo marcate quando consideriamo i tre principali “mondi” borsistici dell’Occidente: l’UE, il Regno Unito, gli USA.

Sono più marcate quando confrontiamo queste pratiche di disclosure con quelle del mondo che, per contrasto, potremmo definire “orientale”, dove sono attive le borse di Giappone, Cina, India e Singapore per menzionare le più importanti[1].

Due mondi a confronto

Tentativamente, quindi, è possibile distinguere due tipi di universi in cui cadono le società quotate in importanti mercati regolati. Un mondo, chiamiamolo anglo-europeo, vede gli azionisti molto distribuiti e frammentati, con un flottante importante (anche se, attraverso diversi meccanismi, il controllo può rivelarsi saldamente tenuto in poche mani). Nell’altro mondo, chiamiamolo asiatico o orientale, l’azionariato è molto meno frammentato e inserito in una rete di alleanze fatte di rapporti familiari e reti di appoggio reciproco, spesso con una forte presenza dello Stato.

Nel primo mondo la frammentazione porta investitori istituzionali e proxy advisors ad avere un importante potere di condizionare la governance delle società. Inoltre, gli activist investors, dedicati ad intervenire per aumentare il valore delle aziende, premono acciocché le società forniscano informazioni su dettagli sempre più numerosi della loro gestione e dell’impatto sui conti e sugli aspetti ESG. Nel secondo mondo, dove la scarsa o inesistente contestabilità del controllo è la norma, prevale una tendenza a celare, o a resistere di svelare, i dettagli della gestione.

Particolare è la divulgazione in America Latina: il controllo societario è più vicino al modello orientale, ossia fortemente concentrato e conservato attraverso reti di rapporti familiari, personali e statali, ma la forte influenza europeo-occidentale (ricordiamo ad es. che il Messico è membro dell’OCSE) incoraggia una adesione formale a princìpi e regole di grande trasparenza, a cui corrisponde una pratica che non è assolutamente all’altezza degli enunciati.

Il modello svizzero

Un caso a sé è rappresentato dalla Svizzera, dove una tradizione di strenua difesa della riservatezza deve venire a compromessi con il mondo in cui il paese si trova immerso ed integrato, risultando in una divulgazione un po’ più avara di dettagli. Analizzando le disclosures di un campione di aziende operanti nei diversi mondi[2] emergono significative differenze che servono a dare una misura della difformità ancora esistente a livello mondiale circa quanto un azionista può aspettarsi di avere rivelato sulle remunerazioni che vengono pagate e le politiche (o arbìtri) che le determinano.

Usa più “aperto” rispetto all’Ue

L’analisi delle divulgazioni sulle remunerazioni delle società scelte conferma l’esistenza di un mondo anglo-europeo dall’elevato “disclosure score“, in cui sono comunque rilevabili interessanti differenze. È chiaro ad esempio che, a giudicare dal numero di “named executives” dei quali viene rivelato il dettaglio dei compensi, il mondo USA ha meno problemi di privacy rispetto all’Europa.

In questo mondo si può anche notare che laddove la contestabilità del controllo è maggiore, maggiore è anche la disclosure e viceversa: la lettura, nell’ambito europeo, delle disclosures della Campari (in mano ad una famiglia), e, nell’ambito USA, di quelle di Google (in mano ai due fondatori tramite azioni speciali) da adito a questa ipotesi.

Va sottolineato che talune aziende del campione sono multinazionali con quotazione in più di una borsa: tali società tendono ad adeguarsi ai requisiti più stringenti tra le giurisdizioni in cui vengono scambiate i certificati azionari (è il caso, ad es. di ENI), anche se le borse, almeno negli USA, prevedono una serie di eccezioni quando ospitano aziende straniere.


[1] Le borse dei paesi menzionati occupano i primi dieci posti per capitalizzazione in una classifica mondiale (Wikipedia)

[2] L’autore ha analizzato, derivandone un punteggio, la divulgazione sulle remunerazioni nel materiale messo a disposizione degli azionisti in vista dell’assemblea annuale e/o conservato nei siti delle aziende stesse o delle borse dove sono quotate da parte di un campione di 18 imprese quotate in diversi paesi e operanti in diversi settori, scelte arbitrariamente:

•                              4 imprese italiane (ENI, Webuild, Brembo, Campari)

•                              4 imprese “Altra Europa” (BAT, Bouygues, Smiths, Stellantis)

•                              4 imprese USA (GE, Microsoft, Alphabet, Colgate-Palmolive)

•                              4 imprese asiatiche (Toyota, Alibaba, Tencent, Tata Consultancy Services)

•                              2 imprese latinoamericane (Grupo Alfa, Suzano)

Non sono state considerate imprese del settore finanziario.

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