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La diversity nella finanza? Un valore aggiunto

I team di gestione misti hanno una migliore capacità di gestire il rischio e di intercettare trend nuovi

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L’anno della pandemia ci ha lasciato in eredità una maggiore coscienza dei limiti del nostro modello di crescita, molto basato sullo sfruttamento delle risorse ambientali. Ci ha anche messo di fronte ad un inedito allineamento globale in fatto di politiche monetarie (tassi ovunque molto bassi uniti ad una tolleranza – forse una “complacency” – all’inflazione molto elevata) e di stimoli fiscali.  Infine, abbiamo assistito al lancio di colossali piani di investimento pubblico orientati ai settori “ESG” e ad una parte dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.  Digitalizzazione, sanità, decarbonificazione dei trasporti, energie rinnovabili, istruzione, transizione energetica, per nominarne alcuni.

ESG: da noioso a “cool”

Sospinti dai tassi negativi, da promesse di denaro pubblico, i mercati azionari hanno galoppato. Non per tutti i settori, ma soprattutto per quelli che più possono trarre beneficio da questi nuovi trend globali.  Nel mondo del risparmio gestito i vincitori del 2020 sono stati quei fondi “tematici” che avevano colto i trend giusti, spesso in sovrapposizione ai temi ESG.  Dall’essere considerato (sbagliando) “noioso” e forse anche poco performante, l’acronimo ESG è diventato invece molto “cool”.  A ragione?  Dal punto di vista della performance, certamente: anche da prima della pandemia, numerosi studi confermavano che i fondi ESG performassero meglio di quelli tradizionali, a parità di volatilità.  Ma siamo agli inizi di un lungo percorso che coinvolge in maniera quasi totalizzante il settore del risparmio gestito e per tanti aspetti.

Eliminare il “greenwashing” e capire le aziende in cui investire grazie alla diversity

Anni di investimenti in dati, numeri e strumenti di intelligenza artificiale per grattare via la patina di informazioni superficiali e scavare nei bilanci delle aziende consentono ora ai gestori globali di capire se un’azienda è veramente “green” come dice di essere.  Tra questi dati, una parte sempre più importante è rappresentata da quelli relativi alla struttura di governance e alla diversity.  Non solo cosa l’azienda fa, ma come lo fa e con chi lo fa.  Si tratta in molti casi di informazioni qualitative, ottenute preparando questionari ad hoc e facendo un costante engagement con le aziende. Significa votare in maniera coerente con la mission dei propri fondi (anche quelli passivi) sulle risoluzioni più importanti.  Significa costruire, al proprio interno, team di analisi e gestione in grado di leggere e interpretare correttamente la mole crescente di dati e di confrontarsi con successo con le aziende.  Non si parla solo di composizione dei Board, ma di aree, come ad esempio quella dell’innovazione. Uno studio del Center for Global Development (CGD) ha analizzato la performance delle 100 aziende globali leader per depositi di brevetti. Le aziende con un numero maggiore di brevetti depositati da ricercatrici, nei settori più innovativi, hanno generato rendimenti per i propri azionisti di circa 3 volte superiori a quelle con brevetti a prevalenza maschile.  Analisi come queste dimostrano che dove si deve fare innovazione per sopravvivere (e questo interessa sempre più settori) i team di ricerca vincenti sono quelli dove c’è spazio per la diversità di idee, e per la creatività stimolata da un ambiente di lavoro aperto.  Lateral thinking contro omologazione.

La diversity anche tra chi seleziona gli investimenti

E chi investe?  I gestori sono oggi chiamati ad applicare al proprio interno quello che chiedono alle aziende in cui investono. Tutto il settore finanziario in effetti è un “people business”, fatto da persone. Essere “sostenibili” anche nella composizione delle proprie risorse umane.  Hanno cominciato le grandi banche private, tra i clienti più importanti degli asset manager: la diversity all’interno dei team di gestione è ora uno dei criteri più importanti nella selezione dei fondi.  A ragion veduta: una parte crescente del risparmio globale è oggi controllata dalle donne, che hanno anche una longevità maggiore rispetto agli uomini e quindi bisogno di prodotti di investimento di lungo termine. Nel 2018, secondo BCG, le donne detenevano circa il 32% della ricchezza finanziaria globale, poco più di 72 miliardi di dollari.  Eppure, solo circa il 2% di questi patrimoni erano gestiti da altre donne.  Donne e giovani (millennials) sono inoltre accomunati da una spiccata preferenza ESG nelle loro scelte di investimento.  Infine, stando all’evidenza empirica, le donne investono meno volentieri nei mercati azionari, e sono più avverse al rischio.

Per tutti questi motivi le società di gestione devono aprirsi sempre di più alla diversità. I team di gestione misti hanno una migliore capacità di gestire il rischio e di intercettare trend nuovi, cogliendo lo “zeitgeist”, lo spirito del tempo. Il primo risultato lo vediamo già nel numero dei fondi mono-gestore (spesso delle vere e proprie star), in continua riduzione, proprio a favore di team misti. Ma la strada da percorrere è lunga. Nonostante tutte queste buone ragioni per avere più donne a selezionare investimenti, l’asset management è un settore che fatica ancora ad attrarre talento femminile: secondo l’Alpha Female report 2020 di Citywire, su 14 mila miliardi di patrimonio censito nel loro database, in oltre 25 mila fondi, la percentuale di gestori donne era solo dell’11%.  Eppure, basta prendere in mano il bilancio non finanziario di qualsiasi società di gestione e troverete obiettivi di presenza femminile nei propri consigli e comitati esecutivi ben più elevati. Ma qualcosa è cambiato ed è tempo di puntare l’attenzione anche sulla fabbrica e non solo sulla stanza dei bottoni. 

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