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Governance sostenibile e direttiva Due Diligence: compromesso cercasi

Le posizioni di Commissione, Consiglio e Parlamento divergono su una quantità di punti fondamentali, e la quadratura del cerchio sembra un’impresa difficile. E mentre in altri Paesi non mancano prese di posizione in Italia si ignora il problema

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Secondo una definizione classica (Shleifer) la corporate governance si occupa dei “modi con cui i finanziatori delle società (corporate) si assicurano di ottenere ritorni finanziari sui loro investimenti”. Essi hanno a che fare con i contratti di finanziamento e con le strutture di governo delle società che assicurano agli azionisti di controllare le decisioni dei manager. Il passaggio a un nuovo paradigma di governance sostenibile (vedi Cariello, in questo numero) include tra i soggetti cui il management rende conto anche gli stakeholders che, nella visione classica, sono tutelati dai contratti stipulati (fornitori, lavoratori) e dalla normativa generale (ambiente, comunità locali).

In Italia, come altrove, l’ordinamento vede la creazione di valore nel lungo termine per gli azionisti come obiettivo della gestione dell’impresa, al più “tenendo conto” degli interessi degli altri stakeholder rilevanti (Codice CG). Come (e fino a che punto) tenere conto di tali interessi, se non allineati con quelli degli azionisti, resta un problema aperto cui si è cercato di dare risposta parziale attraverso la proceduralizzazione delle decisioni (comitati sostenibilità, pareri, obblighi di motivazione).

Tale situazione potrebbe a breve essere rivoluzionata dalla Direttiva Corporate Sustainability Due Diligence (CSDDD). Commissione, Consiglio e Parlamento UE devono trovare una soluzione di compromesso tra le loro posizioni (sintetizzate qui), probabilmente entro fine anno e possibilmente prima delle elezioni europee, a maggio 2024.

Diritti umani e ambiente al centro

La proposta di direttiva fissa obblighi di due diligence in materia di rispetto dei diritti umani e di tutela ambientale a carico delle imprese europee (e non) che superano certe soglie dimensionali. Sostanzialmente le società non piccole dovranno identificare gli impatti attuali e potenziali dell’attività svolta direttamente e da entità facenti parte delle loro “catene del valore”, prevenire o mitigare tali impatti e stabilire procedure di reclamo da parte dei soggetti interessati, che potrebbero anche avere accesso forme di litigation di fronte ad autorità nazionali.

La tutela dei diritti umani e dell’ambiente sono punti fuori discussione. Ma diverse proposte sul tappeto appaiono problematiche, come testimoniato dal fatto che le posizioni di Commissione, Consiglio e Parlamento divergono su una quantità di punti fondamentali: dalle soglie dimensionali di applicazione al coinvolgimento delle società del settore finanziario, dall’estensione della nozione di “catena del valore” (solo controparti dirette dell’impresa o anche indirette? Solo upstream – catena di fornitura – o anche downstream – clienti diretti e indiretti? Solo partner abituali o qualunque controparte?) all’obbligo di presentare piani di transizione energetica con tempistiche stringenti, fino al tipo di enforcement previsto (prevedere una responsabilità degli amministratori, e per quali comportamenti/situazioni? Prevedere per essi un obbligo di remunerazione sustainability-linked? Quali confini dovrebbe avere la responsabilità civile verso i soggetti danneggiati dall’attività della società o di altri soggetti nella catena del valore?)

Un’ampia divergenza tra le soluzioni proposte non è un buon viatico per un risultato equilibrato. In altri Paesi la business community non ha fatto mancare prese di posizione, anche critiche. E in Italia? Secondo tradizione, mentre a Roma si discute di altro, le decisioni si prendono altrove.

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