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Amministratori indipendenti e società pubbliche

Un approccio differente

Quando si affronta il tema della corporate governance con un angolo di osservazione rivolto all’universo del settore pubblico, necessariamente si è costretti ad utilizzare un approccio di analisi differente, rispetto a quello per il settore privato, in grado di cogliere la peculiarità del contesto di riferimento. 
Tralasciando il classico luogo comune che vede accumunare la gestione delle aziende a partecipazione pubblica alle logiche di spartizione politica e di controllo del potere, si vuole preliminarmente osservare come, in tale particolare ambito, occorra prendere in considerazione, per una corretta analisi, aspetti e logiche differenti, rispetto ad una impostazione classica di governance nelle imprese private. L’impresa pubblica, proprio in relazione al suo particolare assetto proprietario, dovrà necessariamente operare verso uno sviluppo di prassi tali da permettere una tutela più ampia e diffusa dei molteplici interessi in gioco, non riconducibili quindi ad una logica prettamente economica, come potrebbe avvenire all’interno delle società esclusivamente private. 
Le società a partecipazione pubblica infatti sono solitamente impegnate in settori di particolare rilevanza ed interesse per la collettività; la loro attività dovrebbe dunque essere in grado sia di tutelare l’azionista pubblico e, in generale, l’interesse pubblico oggetto della sua attività, sia di assicurare la redditività del capitale investito dagli azionisti, salvaguardando la trasparenza dell’azione amministrativa e garantendo una ripartizione dei poteri all’interno delle strutture societarie tale da equilibrare quelli dei diversi soggetti. 
Diviene perciò importante, per un sistema di governance efficace, la capacità di raggiungere un equilibrio tra il potere in capo al soggetto pubblico, essenzialmente di natura politica, e il ruolo imprenditoriale che è chiamata ad esercitare l’impresa: questi due ruoli sono difficili da tenere separati e possono produrre inefficienze nella gestione d’impresa e nella tensione al raggiungimento di risultati apprezzabili. Nel caso di società a partecipazione pubblica quotate nei mercati regolamentati poi, tale equilibrio risulta ancora più importante e delicato, a causa dell’allargarsi dei soggetti a vario titolo coinvolti nella gestione societaria (Cristofoli e Zerbini, Privatizzazioni e corporate governance, in Economia & Management, n. 6.2002). L’apertura del capitale ai privati, infatti, consente l’ingresso di soggetti portatori di interessi eterogenei, tutti meritevoli di tutela, rispetto agli stakeholders tradizionali delle imprese detenute totalmente da un soggetto pubblico. 
Nella gestione societaria, il soggetto pubblico può essere tentato di utilizzare il proprio potere per raggiungere obiettivi che deviano da quelli dei cittadini (veri ed unici proprietari delle società), creando un’ineludibile commistione tra politica e impresa, a diretto danno della gestione e valorizzazione dell’attività societaria, che può essere soggetta ad inefficienze economiche ed operative. 
In sintesi, nel caso dello Stato-proprietario, che al pari di ogni proprietario ha l’interesse legittimo a massimizzare il proprio patrimonio, diventa complicato fornire un concetto univoco di “patrimonio” e di riflesso anche il concetto stesso di “massimizzazione” dello stesso diviene labile. 
Lo Stato-azionista sarà poi necessariamente portatore di altri interessi, non sempre coincidenti con la nozione di massimizzazione del patrimonio sociale (Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005), che arricchiscono ancora di più il dibattito sul tema. 

La figura dell’amministratore indipendente

Nel contesto di riferimento sommariamente delineato, è interessante soffermarci ad analizzare la figura dell’amministratore indipendente, ormai generalmente presente nelle società quotate italiane, anche a partecipazione pubblica, sia per i vincoli imposti dal TUF che per la libera adesione ai principi previsti dal Codice di Autodisciplina per le società quotate. 
Come già da più autori sottolineato, l’indipendenza non deve essere considerata di per sé come sinonimo di autonomia di giudizio. Infatti tutti gli amministratori, a prescindere dal possesso o meno degli ulteriori requisiti di indipendenza, vengono investiti dall’assemblea di ampi poteri, da esercitare in piena autonomia rispetto alla stessa assemblea; l’autonomia va intesa, quindi, come la capacità di autodeterminazione che deve possedere chiunque rivesta la carica di amministratore. I requisiti di indipendenza andranno così solo a rafforzare questa autonomia, senza comunque portare ad una confusione tra i due aspetti.

Nelle società pubbliche l’interesse della collettività è “interiorizzato” nelle finalità sociali, per cui realizzando l’oggetto sociale viene di riflesso perseguito anche l’interesse pubblico. I doveri degli amministratori, in tale contesto, risultano sicuramente più estesi rispetto a quelli tradizionali, dal momento che nella proprietà pubblica trovano espressione interessi di più ampio respiro: sarà importante per loro contemperare, all’occorrenza, la gestione societaria secondo criteri prettamente economici con gli interessi della collettività. In tal senso l’amministratore, nel suo quotidiano operare, sarà chiamato a compiere delle scelte nelle quali le sue valutazioni risulteranno necessariamente influenzate dal tipo di contesto peculiare in cui opera l’impresa, incidendo su interessi anche di natura sociale e collettiva. 
Risulta dunque importante, a parere di chi scrive, la presenza di soggetti indipendenti negli organi di governo delle società a partecipazione pubblica, in grado di equilibrare, quando effettivamente indipendenti, una situazione di eccesso di potere in capo al proprietario pubblico, a svantaggio dei cittadini. Il cittadino infatti, diversamente da un normale proprietario di società privata, non ha il potere di incidere direttamente nella scelta dei soggetti che saranno deputati alla gestione societaria, bensì deve essere necessariamente “rappresentato” dal soggetto pubblico espressione della collettività (Claessens S., Fan J., Corporate Governance in Asia: a Survey, in International Review of finance, 3:2, pp. 71-103, 2002). Da qui la funzione importante che amministratori indipendenti, quando realmente estranei alle logiche politiche, possono ricoprire a garanzia della corretta gestione societaria.

Un rischio in cui potrebbe incorrere tale figura è vedere compresso eccessivamente il proprio margine di discrezionalità da parte del soggetto pubblico proprietario, a causa dell’esistenza di ulteriori finalità nella gestione d’impresa rispetto a quelle privatistiche. Al riguardo la figura dell’amministratore indipendente dovrebbe essere presente solo laddove l’azionista-Stato “ne preordini in termini sistematici e generali i criteri di scelta e le modalità di nomina” (Bernini, L’amministratore non esecutivo/indipendente nel contesto di società a capitale pubblico, LUISS, 10 maggio 2005). Per potergli permettere di svolgere al meglio la propria attività risulta importante che l’azionista pubblico gli garantisca uno spazio minimo di libertà, al cui interno sia possibile per l’indipendente ricoprire l’incarico che gli viene affidato con la giusta professionalità e coerenza. Andrebbe, in definitiva, chiarito preventivamente quale è l’interesse generale, insito nell’atto politico da riversare sulla gestione, e di conseguenza sullo spazio di autonomia lasciato all’amministratore di una società pubblica.

La presenza degli indipendenti nel settore pubblico Analizzando brevemente l’effettiva presenza degli amministratori indipendenti all’interno dei CdA delle società a partecipazione statale o di enti territoriali, possiamo notare come l’outsider ratio, ovvero il rapporto tra il numero degli amministratori indipendenti in riferimento al totale dei membri del CdA, si attesti su una media del 65-70%, rispetto al 36,3% della media delle società quotate italiane (Assonime, 2009). Questo potrebbe portarci frettolosamente a concludere che, nel contesto delle società a partecipazione pubblica, i consiglieri siano in possesso di qualità tali da farli risultare maggiormente indipendenti rispetto alla media nazionale. In effetti la loro presenza all’interno dei CdA risulta pari quasi al doppio alla media nazionale. Occorre, però, evidenziare come il problema stia proprio nella definizione di quelle che possono essere considerate le condizioni d’indipendenza, argomento di non facile soluzione; infatti, anche quando un amministratore viene considerato formalmente indipendente dall’impresa (ai sensi del TUF piuttosto che del Codice di Autodisciplina), ciò non esclude l’eventuale esistenza di collegamenti con taluni amministratori locali. Al riguardo, si può notare come il Codice di Autodisciplina, nel commentare i requisiti desiderabili ai fini dell’indipendenza degli amministratori, ritiene debbano essere prese in considerazioni anche relazioni diverse da quelle economiche; si legge, infatti, come “negli emittenti a controllo pubblico, l’eventuale attività politica svolta in via continuativa da un amministratore potrebbe essere presa in considerazione ai fini della valutazione della sua indipendenza”. 
Però, analizzando quanti degli amministratori valutati come indipendenti hanno già rivestito in passato cariche politiche, possiamo notare come il dato risulti particolarmente significativo, nonostante le indicazioni al riguardo fornite dal Codice (per uno studio sul tema ci si permetta il rinvio al nostro, La corporate governance e gli amministratori indipendenti. Le società quotate a controllo pubblico, Aracne, Roma, 2009). Il fatto che amministratori che in passato hanno svolto ruoli di natura essenzialmente politica vengano comunque riconosciuti “indipendenti” dai CdA delle società in cui svolgono la propria attività, pone quanto meno dei dubbi e delle perplessità sulla reale portata del concetto di indipendenza nelle società controllate da soggetti pubblici. 
Se quindi, da un lato, è indubbia la necessità di una adeguata presenza di consiglieri indipendenti all’interno dei CdA delle società pubbliche a garanzia degli azionisti ultimi (cittadini), occorre anche valutare con attenzione l’effettiva indipendenza di questi soggetti. Sarebbe rischioso arrivare al paradosso di un’indipendenza talmente diffusa (almeno sulla carta) da non essere più in grado di adempiere al compito per la quale risulta necessaria. 
Un sistema di corporate governance dovrebbe, al contrario, essere strutturato in modo da consentire la definizione di criteri il più trasparenti possibile per la selezione e la nomina degli amministratori, in modo da garantire una composizione del CdA caratterizzata complessivamente dalla presenza di adeguati profili professionali, siano essi in capo a soggetti indipendenti o meno. 
A titolo di esempio, sarebbe opportuno che le società pubbliche chiariscano in modo esauriente nelle loro relazioni sulla corporate governance le modalità ed i parametri utilizzati nella scelta dei soggetti chiamati a ricoprire cariche all’interno degli organi sociali, provvedendo magari ad una pubblicazione dei curricula dei soggetti nominati, in modo da permettere un “controllo” reale sulle scelte operate dalla società.

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